Io... e il ciclone
1928
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Registi
Girato nel 1928, è l'ultimo film prodotto dalla volontà creativa e indipendente di Keaton prima della firma faustiana con la MGM, un patto col diavolo che avrebbe sistematicamente smantellato il suo genio, trasformando un architetto del caos in un impiegato della gag. Guardare Steamboat Bill, Jr. oggi significa assistere a un uomo che, letteralmente e metaforicamente, lotta contro la tempesta imminente—una tempesta che non è solo climatica, ma tecnologica (l'avvento del sonoro) ed economica (il collasso dello Studio System indipendente e l'imminente Grande Depressione).
Al centro di tutto, c'è un conflitto che è quasi shakespeariano nella sua archetipica semplicità: il Padre contro il Figlio. Ma qui, la tragedia (o meglio, il pathos) è filtrata attraverso la lente della farsa cosmica. Il capitano William "Steamboat Bill" Canfield Sr. (un gigantesco Ernest Torrence, che torreggia su Keaton come un Golem di granito) è un relitto del XIX secolo. È la frontiera, la forza bruta, il Mississippi di Mark Twain ormai in secca. Aspetta suo figlio, che non vede da anni, immaginando un erede a sua immagine e somiglianza, un colosso barbuto. E cosa ottiene? Ottiene Buster. Un "dandy" universitario, effeminato secondo i canoni dell'epoca, con un ukulele (l'arma-feticcio della gioventù dell'età del Jazz), un berretto ridicolo e baffetti posticci che sembrano un errore tipografico. Keaton, l'Uomo di Pietra, è qui al suo apice di inadeguatezza. Non è solo un figlio deludente; è un alieno culturale. È la modernità flapper che sbatte contro il tradizionalismo vittoriano. L'intero film è una lotta per l'approvazione paterna, un tentativo disperato di Willie di dimostrare il suo valore a un patriarca che lo vede solo come un "errore". Le due navi, la fatiscente Stonewall Jackson del padre e la nuova, scintillante King del rivale J.J. King (Tom McGuire), non sono solo barche: sono i paradigmi in conflitto di un'America in piena transizione, l'artigianato contro l'industria, la tradizione contro il capitale.
E nel mezzo di questo scontro, c'è la Faccia. La Great Stone Face. Il genio di Keaton, a differenza del patetismo sentimentale e umanista di Chaplin o dell'ottimismo arrampicatore e borghese di Harold Lloyd, è esistenziale. Keaton è l'uomo stoico in un universo assurdo, un universo che non è maligno (come nell'Espressionismo tedesco), ma semplicemente, magnificamente indifferente. Il suo volto impassibile non è assenza di emozione; è il rifiuto di arrendersi al caos. È l'unica costante in un mondo di variabili impazzite. La gag sublime in cui cerca di comprare un cappello, solo per vederselo distruggere o soffiare via dal padre o dal vento, non è solo slapstick: è una tesi filosofica. È Sisifo che cerca di mettersi un cappello. Willie Jr. è l'antieroe intellettuale, l'uomo che pensa la sua via d'uscita dai problemi, anche quando i suoi tentativi sono comicamente disastrosi (come il tentativo di liberare il padre dalla prigione con una pagnotta che contiene... beh, tutto tranne una lima, in una delle gag visive più demenziali e perfette mai concepite).
Ma tutto questo è solo il preludio. L'intero film, diretto formalmente da Charles Reisner ma coreografato nel profondo dall'anima di Keaton, è un crescendo che porta agli ultimi venti minuti. Il ciclone. Non è una scenografia; è l'Apocalisse. È l'atto di Dio che Béla Tarr avrebbe sognato, la pioggia di Perdizione elevata a potenza uragano. Si dice che Keaton abbia speso una cifra esorbitante (il budget del film era enorme per uno sforzo indipendente) per scatenare questa tempesta, utilizzando sei motori d'aereo Liberty per creare venti che strappavano letteralmente gli edifici dalle fondamenta (costruiti apposta per essere distrutti su set che coprivano ettari). La regia di Reisner qui scompare; è il puro genio logistico di Keaton a prendere il sopravvento. Quello che vediamo non è un attore che finge in sicurezza; è un atleta-filosofo che rischia la vita per una gag. L'universo smette di essere indifferente e diventa attivamente, comicamente omicida.
E poi, arriva. Il momento. L'immagine che definisce non solo il film, ma l'intera filosofia comica del XX secolo, l'istante in cui lo slapstick trascende se stesso e diventa pura arte metafisica. La facciata del palazzo di due tonnellate che collassa su di lui. Keaton non si muove. Resta fermo, lo stoico al centro della tempesta, forse guardando il suo "segno" sul terreno. E la facciata lo manca per pochi centimetri, inquadrandolo perfettamente nello spazio vuoto di una finestra. Non è un trucco ottico. È reale. È un calcolo millimetrico che, se sbagliato, lo avrebbe letteralmente spappolato. È l'immagine più terrificante e sublime della storia del cinema. È l'Individuo che affronta il Fato (il crollo dell'industria, del suo mondo, della sua carriera) e ne esce indenne non per fortuna, ma per precisione. È l'Occhio della Provvidenza che si apre per salvarlo. È la metafora definitiva: il mondo sta crollando, ma per l'uomo che conosce il suo posto (il suo mark), c'è una piccola, precaria finestra di salvezza.
Dopo essere sopravvissuto alla caduta dell'architettura (la sua metafora della civiltà), Willie Jr., l'inetto, diventa improvvisamente competente. Salva la sua rivale in amore, Marion King (Marion Byron), salva il padre, salva persino il rivale del padre. Nella tempesta, l'antieroe inadeguato diventa l'unico uomo capace di agire. Il ciclone è la sua prova del fuoco, il suo battesimo, e lui ne emerge come un eroe che usa l'ingegno per domare una natura impazzita. Il finale è un lieto fine convenzionale, ma il sapore, per noi che guardiamo dal futuro, è amaro. Io... e il ciclone fu un disastro finanziario. Il pubblico del 1928, già ipnotizzato dai primi, goffi film parlati (il Cantante di Jazz era uscito l'anno prima), non aveva più pazienza per la pura poesia visiva. Keaton fu costretto a firmare per la MGM, dove il suo genio fu messo in catene, costretto a fare film "a formula" e privato del controllo creativo. Il ciclone, nella realtà, aveva vinto. Ma in quei venti minuti di caos divino, Buster Keaton ha costruito il suo monumento. Non stava solo combattendo contro il vento; stava combattendo contro la fine del suo mondo, e lo ha fatto con la precisione di un matematico e l'anima impassibile di un poeta stoico.
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