Stelle sulla terra
2007
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Regista
In un universo cinematografico ossessionato dalla disfunzione eroica e dalla grandiosità del trauma, un film come Stelle sulla Terra (Taare Zameen Par) atterra con la grazia silenziosa e perturbante di un'astronave aliena in un cortile di periferia. A prima vista, potrebbe sembrare un esemplare da manuale del "film edificante", una parabola zuccherina sull'importanza di credere in se stessi, calibrata per far sgorgare fiumi di lacrime catartiche. Ma ridurre la pellicola di Aamir Khan (qui in veste di regista esordiente e attore demiurgico) a un mero "feel-good movie" sarebbe come definire Il giovane Holden un semplice romanzo su un adolescente scontroso. Sotto la sua superficie cromata e accessibile, l'opera pulsa con una critica feroce e una comprensione quasi dolorosa della solitudine infantile, posizionandosi come l'inaspettato erede indiano de I 400 colpi di Truffaut, filtrato però attraverso un'estetica che deve tanto a Michel Gondry quanto al melodramma sirkiano.
Il nostro Antoine Doinel si chiama Ishaan Awasthi, un bambino di otto anni il cui mondo interiore è un tripudio di colori, creature fantastiche e meraviglie cinetiche. Per lui, una pozzanghera non è sporcizia, ma un portale per un ecosistema brulicante; i numeri e le lettere non sono simboli statici, ma ballerini anarchici in una coreografia incomprensibile. Il regista Amole Gupte (sceneggiatore e direttore creativo, la cui impronta è indelebile) ci immerge in questa percezione sinestetica con una maestria visionaria. Le sequenze in cui la realtà si deforma attraverso gli occhi di Ishaan sono pura arte gondryana: la battaglia intergalattica che scaturisce da un problema di matematica (3 x 9 = ?) è un pezzo di bravura che evoca la fantasia artigianale di The Science of Sleep. Questa non è semplice decorazione visiva; è il cuore epistemologico del film. Ci costringe a esperire in prima persona il cortocircuito cognitivo della dislessia, non come una patologia, ma come un differente, e a suo modo magico, sistema operativo della mente.
A questo cosmo interiore, vibrante e caotico, si contrappone la realtà esterna: un falansterio di disciplina prussiana mascherato da scuola e una famiglia che misura il valore di un figlio in voti e trofei. Qui, il film si trasforma in una versione bollywoodiana di The Wall dei Pink Floyd. Gli insegnanti, con le loro bacchette e le loro umiliazioni pubbliche, sono i lugubri architetti di un sistema educativo che non forma, ma conforma; che non coltiva, ma pota selvaggiamente ogni ramo che non cresce dritto. La sequenza in cui Ishaan vaga per le strade di Mumbai dopo aver marinato la scuola, immerso nei suoni e nei colori della città, è un intermezzo di una bellezza struggente. È un piccolo poema visivo sulla libertà sensoriale, un'ode all'osservazione come forma primaria di apprendimento, in netto contrasto con la sterile memorizzazione richiesta in classe. Il mondo, ci dice il film, è il vero libro di testo, ma la scuola ha strappato le pagine più belle.
L'esilio di Ishaan in un collegio è la discesa agli inferi. L'istituto, con le sue divise identiche e la sua architettura opprimente, è la concretizzazione del panopticon di Foucault. Qui, la vivacità del bambino si spegne, i suoi disegni svaniscono, il suo sguardo si fa vitreo. È il trionfo del sistema, la normalizzazione forzata dell'anomalia. Ed è a questo punto, quando la speranza sembra un lusso insostenibile, che entra in scena Ram Shankar Nikumbh, interpretato dallo stesso Aamir Khan. Il suo arrivo è un deliberato deus ex machina, un artificio narrativo quasi sfacciato. Nikumbh non è un insegnante, è un archetipo: è il John Keating di Dead Poets Society con un'intelligenza emotiva più affinata, è la Mary Poppins che arriva non per riordinare la stanza dei bambini, ma il loro mondo interiore. Entra in scena vestito da clown, letteralmente e metaforicamente, per smascherare la tragica farsa di un'educazione senza empatia.
L'interpretazione di Khan è un saggio di carisma controllato. Evita la trappola del "salvatore bianco" (o in questo caso, "salvatore illuminato") grazie a un dettaglio cruciale del copione: anche Nikumbh è stato un bambino dislessico. La sua non è una compassione astratta, ma una solidarietà radicata nell'esperienza. Il momento in cui rivela la sua storia, elencando una galleria di geni incompresi – da Einstein a Leonardo da Vinci – non è solo una lezione per i personaggi, ma un manifesto rivolto al pubblico. Il film, in questo frangente, cessa di essere una storia individuale per diventare un discorso universale sulla neurodivergenza, smantellando il concetto stesso di "normalità" e sostituendolo con quello di "unicità". È un'operazione culturale di portata immensa, specialmente nel contesto di una società, quella indiana, spesso iper-competitiva e focalizzata sulla performance accademica come unico metro di successo. Stelle sulla Terra ha fatto per la dislessia in India quello che Philadelphia fece per l'AIDS in America: ha dato un volto umano e una narrazione potente a un'esperienza fino ad allora stigmatizzata o ignorata.
Certo, il film non è esente da una certa dose di sentimentalismo. La colonna sonora di Shankar-Ehsaan-Loy, pur essendo magnifica, a tratti sottolinea l'emozione con una generosità che sfiora la manipolazione. La catarsi finale, con la gara di pittura e l'abbraccio in lacrime tra Ishaan e i suoi genitori redenti, è un climax emotivo costruito a tavolino per garantire il massimo impatto. Ma criticare Stelle sulla Terra per questo sarebbe come criticare un'opera di Verdi per essere troppo operistica. Il film opera consapevolmente all'interno delle convenzioni del cinema popolare indiano, utilizzandone il linguaggio – l'enfasi melodrammatica, i numeri musicali che esprimono stati d'animo interiori (il brano "Maa" è un lamento di una potenza devastante) – per veicolare un messaggio profondamente sovversivo. È un cavallo di Troia: un blockbuster per famiglie che contrabbanda al suo interno una radicale filosofia pedagogica di stampo rousseauiano.
L'atto creativo finale, la gara di pittura, è la sintesi perfetta del percorso del film. Nikumbh dipinge un ritratto di Ishaan, sorridente e radioso; Ishaan dipinge un'immagine di sé stesso, seduto da solo in riva a uno stagno, un riflesso del suo isolamento ma anche della sua capacità unica di vedere la bellezza dove altri vedono solo il vuoto. Ishaan vince la gara, ma il vero trionfo non è nella vittoria. È nel gesto di Nikumbh, che consegna il suo quadro, il ritratto di Ishaan visto attraverso gli occhi dell'amore e della comprensione, alla copertina dell'annuario scolastico. L'immagine del "bambino difficile", del "fallito", diventa l'emblema della scuola. È un'inversione simbolica potentissima: il diverso non è più ai margini, ma al centro. La "stella sulla terra" non è un'eccezione da compatire, ma un faro da ammirare.
In ultima analisi, Stelle sulla Terra è un inno alla fragilità come superpotere, un'elegia per tutte le intelligenze che non rientrano nelle caselle di un test standardizzato. È un film che, come il suo protagonista, danza su un registro tutto suo, mescolando la favola visiva, il dramma sociale e il pamphlet politico con un'armonia sorprendente. Ci ricorda una verità tanto semplice quanto costantemente dimenticata: che prima di insegnare a un bambino a leggere il mondo, bisogna imparare a leggere quel bambino. E a volte, per farlo, non servono manuali di pedagogia, ma solo la pazienza di fermarsi ad ammirare le stelle che ha dentro.
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