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Still Walking

2008

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Hirokazu Kore-eda usa il cinema per osservare, con una pazienza e un'empatia quasi divine, la vita così com'è. Still Walking è forse il vertice più puro e distillato della sua arte, un haiku cinematografico che, nell'arco di ventiquattro ore e tra le mura di un'unica casa di famiglia, riesce a contenere l'intero, agrodolce universo delle relazioni umane. È un'opera di una bellezza sommessa e di una profondità sconcertante, un film che non ha bisogno di gridare perché sa che le verità più grandi vengono sempre sussurrate.

Il concetto di famiglia, ricorrente in tutto il cinema di Kore-eda, trova qui la sua espressione più complessa e toccante. Potremmo definirlo, con un parallelo letterario apparentemente insolito ma profondamente calzante, un nido pascoliano. Come per il poeta italiano Giovanni Pascoli, il "nido" familiare in Kore-eda è un luogo di calore, di rituali, di memorie infantili, un guscio protettivo contro il mondo esterno. Ma è anche, inesorabilmente, un luogo infestato dai fantasmi, un santuario del lutto dove i vivi sono costretti a convivere con l'ombra ingombrante dei morti. La famiglia Yokoyama si riunisce infatti per l'anniversario della morte del figlio primogenito, Junpei, annegato quindici anni prima per salvare un altro ragazzo. La casa è pervasa dall'odore del cibo preparato con amore dalla madre, ma ogni gesto, ogni conversazione, è velato da questa assenza. Il nido è al contempo un rifugio e una prigione di memoria, un luogo da cui è impossibile fuggire e in cui è doloroso restare. In questo, Kore-eda si pone come l'erede più sensibile e intelligente del grande maestro del cinema familiare giapponese, Yasujirō Ozu. Still Walking è un Viaggio a Tokyo del nuovo millennio: ritroviamo lo stesso sguardo paziente sulla dinamica generazionale, le stesse piccole delusioni, la stessa attenzione ai rituali domestici (soprattutto la preparazione del cibo) come veicolo di emozioni non dette. Ma se il cinema di Ozu è spesso pervaso da una gentile e rassegnata accettazione del ciclo della vita, quello di Kore-eda ha una punta di irrequietezza più moderna, una tensione sotterranea che non trova mai una vera e propria risoluzione.

Kore-eda è il profeta della sobrietà e dell'intimismo. Il suo è un cinema del dettaglio, dove le grandi verità emotive non sono affidate a dialoghi altisonanti, ma a gesti minimi, quasi impercettibili. La grandezza di Still Walking risiede nella sua capacità di costruire un intero mondo di relazioni complesse attraverso questi dettagli: il modo in cui la madre Toshiko, mentre cucina la tempura di mais (il piatto preferito del figlio morto), menziona con una crudeltà passivo-aggressiva che il ragazzo salvato da Junpei è diventato un buono a nulla; il modo in cui il padre Kyohei, un medico in pensione, nasconde la sua delusione per il figlio superstite, Ryota, che non ha seguito le sue orme; il modo in cui Ryota, a sua volta, si sente un eterno sostituto, un'ombra inadeguata del fratello idealizzato. Il cibo, in particolare, diventa il linguaggio non verbale della famiglia: è veicolo di amore, di memoria, ma anche di controllo e di sottile ricatto emotivo.

Se Still Walking fosse un melodramma hollywoodiano, sapremmo esattamente come andrebbero le cose. La tensione accumulata durante la giornata crescerebbe fino a sfociare in un confronto esplosivo nell'atto finale del film, seguito da una riconciliazione lacrimosa, con abbracci e promesse. Ma Still Walking non è assolutamente un film hollywoodiano e, fortunatamente, evita di cadere in tali cliché drammatici. Kore-eda, con una sensibilità che potremmo definire cechoviana, sa che le vere dinamiche familiari sono molto più complesse e irrisolte. Al contrario, otteniamo qualcosa di più profondo e vero, ma anche più inquietante e provocatorio. È vero, ci sono momenti in cui gli animi si scaldano e i personaggi si confrontano, a volte anche con forza, come quando Ryota affronta suo padre riguardo alla carriera in medicina. Ma tali scontri avvengono in un contesto più sottile e ambiguo che, oserei dire, è più fedele al funzionamento delle famiglie reali. Le ferite non vengono curate con un'unica, catartica esplosione; continuano a covare sotto la cenere delle conversazioni educate e dei sorrisi di circostanza.

Uno dei grandi punti di forza del film, e ciò che lo rende così coinvolgente, è proprio la sua capacità di catturare il ritmo delle grandi riunioni familiari, dai saluti rumorosi ai pasti meravigliosi, dal caos dei nipoti che corrono per casa alla calma dopo il pasto e ai pisolini. Cattura anche il ritmo delle conversazioni familiari, che possono essere piene di litigi e tensione un momento e, quello dopo, di risate grazie a un ricordo buffo o a una battuta privata. Il film si chiude con una narrazione fuori campo tanto sobria quanto devastante. Con poche frasi, Ryota ci informa che, anni dopo, i suoi genitori sono morti e che lui non ha mai mantenuto la promessa fatta al padre di portarlo a vedere una partita di calcio insieme. Quel "la prossima volta" non è mai arrivato. Il titolo, Still Walking, che si riferisce a una canzone popolare ma anche al commento della madre sul tempo che i morti impiegano per tornare a casa, assume così il suo significato definitivo. È una metafora della vita stessa: continuiamo a camminare, portando con noi i nostri amori, i nostri rimpianti e le nostre promesse non mantenute, un passo dopo l'altro, finché il nostro tempo non finisce. Per questa sua capacità di trovare l'universale nel particolare, il dramma nel quotidiano e la poesia nel silenzio, Still Walking è un'opera di una bellezza e di una saggezza sconfinate, un capolavoro che ci parla sommessamente della remota bellezza delle cose sfuggenti, invisibili, che una volta scoperte dilagano nell'anima e ci fanno stare bene.

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