Storie pazzesche
2014
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Regista
Un velo sottile, quasi impalpabile, separa la routine civilizzata dalla ferocia primordiale. È una membrana fragile, tesa fino allo spasimo dalle piccole e grandi angherie del quotidiano: la burocrazia kafkiana, l'arroganza del potere, il tradimento affettivo, l'insulto gratuito di uno sconosciuto. Damián Szifron, con il suo "Storie pazzesche" ("Relatos salvajes"), non si limita a perforare questo velo; lo squarcia con la gioia sadica di un bambino che fa scoppiare un palloncino, scatenando sei deflagrazioni di rabbia catartica che compongono un'antologia nerissima, esilarante e spaventosamente accurata sulla nostra condizione moderna. Presentato in concorso a Cannes nel 2014 e prodotto, non a caso, dai fratelli Almodóvar con la loro El Deseo, il film è molto più di una semplice raccolta di cortometraggi: è un manifesto programmatico, una diagnosi spietata dell'esaurimento nervoso di un'intera società, quella argentina, che si fa specchio universale delle frustrazioni del mondo contemporaneo.
La struttura episodica richiama immediatamente alla mente la grande tradizione della Commedia all'italiana, in particolare le opere corali di maestri come Dino Risi o Mario Monicelli. "Storie pazzesche" potrebbe essere la versione 2.0, ipertrofica e anfetaminica, de "I mostri", aggiornata all'era della globalizzazione neoliberista, del precariato esistenziale e della rabbia veicolata dai social network. Ma se i "mostri" di Risi erano caricature grottesche che svelavano i vizi di un'Italia del boom economico, i "selvaggi" di Szifron sono persone assolutamente normali, individui qualunque spinti oltre il punto di rottura. Il regista non li giudica, ma li osserva con una fascinazione quasi entomologica mentre la loro corteccia prefrontale cede il passo al cervello rettiliano. L'esplosione di violenza non è mai gratuita; è sempre l'esito matematico, quasi inevitabile, di un'equazione di soprusi accumulati.
Prendiamo l'episodio "Bombita", che vede protagonista il volto più rassicurante e amato del cinema argentino, Ricardo Darín. Il suo Simón Fischer è un ingegnere esperto in demolizioni, un uomo mite e metodico, la cui vita va in pezzi a causa di una multa per divieto di sosta. La sua odissea negli uffici della burocrazia municipale è un capolavoro di scrittura che trasforma un'esperienza universalmente frustrante in un incubo degno di Franz Kafka o di Terry Gilliam in "Brazil". Ogni sportello, ogni modulo, ogni cavillo regolamentare è un muro di gomma contro cui la logica e la ragione si infrangono. Quando Simón, dopo aver perso lavoro e famiglia, decide di applicare le sue competenze professionali per vendicarsi del sistema, non diventa un terrorista, ma un eroe popolare. La sua "bombetta" è un atto di chirurgica precisione, una performance artistica di protesta che colpisce il simbolo dell'oppressione senza ferire nessuno. Szifron qui tocca un nervo scoperto: la fantasia, condivisa da milioni di cittadini in tutto il mondo, di poter finalmente far saltare in aria l'apparato impersonale e disumano che regola le loro vite.
Se "Bombita" è la ribellione del cittadino contro lo Stato-Leviatano, l'episodio "Il più forte" è la deflagrazione dello scontro di classe ridotto alla sua essenza più brutale. Su una strada deserta e assolata che pare uscita da un film di Sam Peckinpah, un manager alla guida di un'Audi di lusso e un uomo del posto su un catorcio sgangherato si impegnano in un duello di insulti e prevaricazioni che scala rapidamente verso un'apocalisse di violenza nichilista. L'abitacolo dell'auto diventa una trincea, il cric un'arma ancestrale. La contesa non è più per il diritto di precedenza, ma per l'affermazione della propria superiorità sociale e virile. La conclusione, con i due corpi carbonizzati e abbracciati nel rottame, scambiati dalla polizia per vittime di un tragico "crimine passionale", è di una ironia così nera da lasciare senza fiato. È un apologo perfetto e terribile sulla stupidità della rabbia, una sorta di "Aspettando Godot" in cui Godot arriva sotto forma di un camion che pone fine alla farsa.
Szifron dimostra una maestria eccezionale nel modulare i toni, passando dalla satira politica al thriller psicologico, dalla farsa grottesca al dramma da camera. Nell'episodio che apre il film, "Pasternak", la vendetta assume contorni quasi mitologici, astratti. Un gruppo di persone apparentemente slegate tra loro scopre, a bordo di un aereo, di avere un unico, fatale punto in comune: tutti, in passato, hanno fatto un torto a un certo Gabriel Pasternak. L'aereo diventa una sorta di arca di Noè al contrario, un conclave di "colpevoli" radunati dal loro demiurgo offeso per un giudizio finale e inappellabile. È un prologo fulminante, un'ouverture che stabilisce le regole del gioco: in questo universo narrativo, le conseguenze sono sempre sproporzionate, estreme, definitive.
Altrove, il film esplora la corruzione morale che alligna ai piani alti della società. Ne "La proposta", un ricco imprenditore tenta di insabbiare l'omicidio stradale commesso dal figlio adolescente, innescando un meccanismo perverso di negoziazioni e ricatti che coinvolge avvocati, procuratori e persino il giardiniere di famiglia, offerto come capro espiatorio. La sequenza, quasi interamente ambientata nel lussuoso salotto della villa, è un pezzo di teatro dell'assurdo che ricorda il cinismo borghese di Luis Buñuel, dove ogni principio morale ha un prezzo e la giustizia è una merce come un'altra. Il degrado non è nella violenza fisica, ma nella disinvoltura con cui si mercanteggia una vita umana.
Ma il vertice emotivo e spettacolare del film è senza dubbio l'episodio finale, "Finché morte non ci separi". Durante un sfarzoso ricevimento di nozze, la sposa Romina (una performance monumentale di Érica Rivas, che trasfigura il suo volto in una maschera di furia greca) scopre il tradimento del neomarito con una delle invitate. Quella che segue non è una semplice scenata di gelosia, ma un'implosione nucleare che disintegra l'ipocrisia del rito matrimoniale e delle convenzioni sociali. Romina attraversa l'intero spettro della disperazione: dal pianto disperato sul tetto dell'hotel, in un dialogo surreale con un cuoco, a una vendetta calcolata e feroce che si consuma sulla pista da ballo. La sua danza con l'amante del marito è un momento di cinema puro, un tango di umiliazione e potere che culmina in un atto di violenza catartica e grottesca. La festa di nozze diventa un campo di battaglia, una performance artistica di caos e distruzione. Eppure, anche qui, Szifron riesce a trovare una via d'uscita tanto imprevedibile quanto coerente: dopo aver toccato il fondo dell'abisso, i due sposi trovano una forma perversa e primordiale di riconciliazione, un patto di sangue suggellato nel sesso ferino tra i resti della loro stessa festa. È la consapevolezza che, forse, la loro unione può sopravvivere non nonostante la loro natura selvaggia, ma proprio grazie a essa.
"Storie pazzesche" è un film profondamente argentino, intriso delle ansie di una nazione abituata a cicliche crisi economiche, a una profonda sfiducia nelle istituzioni e a un senso di ingiustizia pervasivo. Eppure, la sua forza risiede proprio nella capacità di rendere questa rabbia locale un sentimento universale. La regia di Szifron è impeccabile, dotata di una fluidità e di una lucidità quasi hollywoodiane che contrastano magnificamente con la brutalità degli eventi narrati. La fotografia patinata, i movimenti di macchina eleganti e la colonna sonora epica di Gustavo Santaolalla (vincitore di due Oscar) conferiscono a queste miserie umane una dimensione quasi eroica, trasformando un impiegato frustrato o una sposa tradita in protagonisti di una tragedia moderna.
Il film agisce come una valvola di sfogo, un'esperienza cinematografica che permette allo spettatore di esorcizzare le proprie pulsioni più oscure in un contesto protetto. Ci riconosciamo, con un brivido di piacere e vergogna, in ognuno di questi personaggi sull'orlo di una crisi di nervi. Szifron ci sbatte in faccia lo specchio, e nel riflesso non vediamo mostri alieni o psicopatici da manuale, ma la versione di noi stessi a un semaforo rosso di distanza dal punto di non ritorno. È un promemoria brillante e terrificante del fatto che la civiltà non è uno stato di natura, ma un accordo fragile, un armistizio temporaneo con la bestia che dorme dentro di noi, e che basta un clacson di troppo per svegliarla.
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