Stranger Than Paradise
1984
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Regista
Jim Jarmusch al suo secondo film dopo il debutto con Permanent Vacation del 1980. Con Stranger Than Paradise, il giovane Jarmusch non solo consolidava il proprio statuto di voce inequivocabile nel panorama cinematografico indipendente americano, ma definiva altresì un linguaggio stilistico che avrebbe perennemente connotato la sua filmografia: un minimalismo asciutto, una comicità malinconica e una predilezione per i non-eventi che si rivelano, paradossalmente, gli eventi più significativi.
Il talentuoso regista di New York ci regala un’opera grottesca e sardonica, un road movie dove tutto succede e dove ogni cosa inaspettatamente torna al suo esatto punto di partenza, dopo un tortuosissimo percorso. Ma etichettarlo semplicemente come "road movie" sarebbe riduttivo, quasi un tradimento dell'intento jarmuschiano. È piuttosto un "anti-road movie", una disillusione della retorica avventurosa tipica del genere, dove la libertà della strada si trasforma in un vagabondaggio senza meta, permeato da un senso di disorientamento esistenziale. I paesaggi urbani e rurali attraversati non sono fondali pittoreschi per rivelazioni catartiche, ma piuttosto estensioni della desolazione interiore dei protagonisti. Il bianco e nero granuloso, una scelta estetica tanto radicale quanto economicamente necessaria (il film nacque da un corto di trenta minuti, "The New World", poi espanso), amplifica questa sensazione di atemporalità e alienazione, spogliando l'America di ogni lustro mitico per rivelarne una realtà cruda e indifferente.
La storia è quella di un giovane di New York, Willie, annoiato e cinico, che riceve l’inaspettata visita di una cugina ungherese di sedici anni. Eva, una figura quasi aliena nel contesto americano, porta con sé un’innocenza e una curiosità che si scontrano con la apatia di Willie e dell'amico Eddie. I loro dialoghi sono frammentati, costellati di silenzi imbarazzanti, un riflesso fedele di un'incapacità generazionale di comunicare autenticamente, di stabilire connessioni significative. È in questa danza di incomprensioni e piccoli gesti che risiede la vera drammaticità del film, una drammaticità sussurrata anziché urlata.
Dopo dieci giorni di permanenza la ragazza si trasferisce a Cleveland. Willie, incapace di tollerare il vuoto lasciato dalla sua partenza, seppure non ammetterebbe mai una tale debolezza emotiva, decide di agire.
Per combattere la noia Willie con l’amico Eddie restituisce la visita alla cugina viaggiando verso Cleveland. Un viaggio non per scoperta, ma per mero riempitivo, per sfuggire all'ingombrante peso del nulla che incombe sulle loro esistenze. I personaggi non cercano risposte, ma solo distrazione dal vuoto. La loro relazione è intessuta di non-detti, di un affetto goffo e quasi involontario, una parodia delle dinamiche familiari e amicali. L'arrivo di Eva nel loro appartamento monocorde è una crepa nella routine, ma anche la loro reazione a essa è un tentativo di ripristinare un equilibrio, seppur precario, nella monotonia.
Il viaggio segnerà l’inizio di una grottesca gimcana attraverso i flutti del fato e della strada. Il destino, nel cinema di Jarmusch, non è una forza trascendente ma piuttosto una serie di coincidenze banali, di deviazioni illogiche che non portano a nessuna epifania, solo a nuove configurazioni della medesima, implacabile noia.
Arrivati a Cleveland Willie e Eddie coinvolgono Eva in un viaggio verso la Florida. Un'ulteriore tappa in un'odissea dell'assurdo, dove la "paradisiaca" Florida si rivela altrettanto desolante e spoglia di promesse quanto le gelide strade di Cleveland o i vicoli di New York. Questa delusione sistematica del mito americano è un leitmotiv. Il sogno di una terra di opportunità si sgretola di fronte alla concretezza di motel anonimi, televisori difettosi e spiagge deserte, confermando che il paradiso, se esiste, è davvero più strano della stessa realtà.
Il viaggio come metafora di vita è una costante nel cinema di Jarmusch, lo ritroveremo in Daunbailò, in Dead Man (dove assume la valenza di un percorso catartico). Ma mentre in Dead Man la peregrinazione di William Blake è una lenta e inesorabile trasformazione verso l'illuminazione spirituale e la morte, in Stranger Than Paradise il viaggio è circolare, un'eterna ripartenza senza vero progresso. È più affine a una fuga perpetua, un tentativo infruttuoso di eludere se stessi e la propria condizione. Questa poetica della stasi nel movimento è un marchio di fabbrica jarmuschiano, una riflessione acuta sulla modernità e sulla difficoltà di trovare un senso in un mondo sempre più disincantato. Il ticchettio costante di "I Put a Spell on You" di Screamin' Jay Hawkins, unico vero elemento musicale diegetico e ricorrente, funge da ipnotica colonna sonora a questa erranza esistenziale, un incantesimo che cattura e fissa i personaggi in un limbo.
Un plauso allo ieratico John Lurie nel ruolo del protagonista, la sua maschera indecifrabile conferisce credibilità e sostanza all’opera. La sua performance, così come quella di Eszter Balint nei panni di Eva e Richard Edson in quelli di Eddie, è volutamente anti-recitazione. I loro volti inespressivi, i gesti minimi e le battute consegnate con un distacco quasi zen, non sono il segno di una mancanza di talento, ma piuttosto una scelta artistica precisa che riflette l'apatia e l'alienazione dei personaggi. Questa "deadpan comedy" è un umorismo freddo e sottile, che non mira alla risata fragorosa ma a un sorriso amaro e consapevole.
Willie ed Eddie si spostano fisicamente a Cleveland, ma il loro percorso non è un trasferimento fisico dal punto A al punto B, ma una sorta di equazione intellettuale, un’inferenza lanciata nel buio della notte. Questo è il cuore pulsante del film, la sua intuizione più audace. La metafora del viaggio non è semplicemente legata al movimento nello spazio, ma all'attivazione di un processo mentale.
Il viaggio, secondo la concezione di Stranger Than Paradise, va prima accarezzato nella mente, progettato, vissuto cerebralmente, prima ancora che esperito. Non è la destinazione a contare, né il percorso in sé, quanto piuttosto l'anticipazione, la costruzione mentale dell'evento. Questa pre-vivuta esperienza, questa "esperienza euristica" come la definisce il critico, è l'unico vero atto di libertà e di creazione possibile per i personaggi.
Quando l’auto divora i chilometri che la separano dalla meta finale, il viaggio in realtà è gia compiuto, si tratta soltanto di espletarne l’esperienza euristica. Si configura come un atto di mera formalità, una riproduzione di un percorso già disegnato nella mente. La vita, in questa prospettiva, non è una sequenza di eventi imprevedibili, ma una serie di rituali, di percorsi predefiniti, dove la sorpresa è bandita e la noia regna sovrana. Stranger Than Paradise si erge così a manifesto di un cinema che rifiuta la spettacolarizzazione e l'eccesso, per abbracciare l'intimità del quotidiano, la poesia dei non-detti e l'inquietante bellezza della routine. Un capolavoro che ha ridefinito l'estetica del cinema indipendente americano, dimostrando che per esplorare le profondità dell'esistenza non servono effetti speciali, ma solo uno sguardo acuto e una profonda comprensione dell'animo umano.
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