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Viale del Tramonto

1950

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Billy Wilder è uno dei registi americani che ha massicciamente contribuito all’edificazione del mito di Hollywood dal dopoguerra in poi, ma forse, più incisivamente, alla sua corrosione, alla sua messa in discussione più acuta. Con una penna affilata come un rasoio e uno sguardo che non risparmiava nulla, Wilder fu l'architetto di una filmografia che, pur abbracciando generi disparati, tornava spesso a indagare le pieghe oscure dell'ambizione umana e le illusioni che il "sogno americano" poteva generare e, altrettanto facilmente, distruggere. La sua rara capacità di combinare il noir più cupo con una satira sociale graffiante trova in questo capolavoro uno dei suoi apici più sublimi.

In questo film, la sua indagine psicologica si dirige sulla decadenza delle star, ma è una decadenza che trascende il semplice invecchiamento fisico per scavare nel cuore della solitudine esistenziale, della follia che può nascere dalla perdita dell'identità professionale e pubblica. È un'autopsia impietosa del sistema delle celebrità, un sistema che eleva gli individui a idoli per poi abbandonarli impietosamente nel momento in cui la loro stella non brilla più secondo le logiche spietate del mercato e della moda.

Il film è infatti incentrato sulla figura di Norma Desmond, un’attrice del cinema muto caduta nell’oblio, la cui esistenza si è cristallizzata in un'eterna e tragica negazione del presente. Il suo destino incarna non solo il declino di una diva, ma la morte di un'intera epoca cinematografica, quella del muto, soppiantata dall'avvento del sonoro con una brutalità quasi darwiniana. La sua storia si intreccia con quella di Joe Gillis, un giovane sceneggiatore squattrinato e cinico, un perfetto antieroe noir, che si ritrova intrappolato nella sua villa opulenta e spettrale, trasformato da opportunista in vittima di una grandezza passata che non riesce a morire.

Il mondo che circonda Norma diviene un microcosmo reclusivo e claustrofobico, una vera e propria tomba dorata. La gigantesca villa in stile spagnolo, un tempo epicentro di feste e celebrità, si è trasformata in un mausoleo polveroso, un palcoscenico decadente dove amori tossici, tradimenti silenti e storie di uomini – o meglio, di ombre di uomini – si mescolano indissolubilmente. È un luogo dove il tempo si è fermato, dove i ricordi sono più vividi della realtà presente, e dove ogni raggio di sole sembra faticare a penetrare le spesse tende di velluto, intrappolando i suoi abitanti in un limbo senza fine.

Disillusione, solitudine ed emarginazione sono le uniche sensazioni che costellano le giornate di questo mito decaduto, sensazioni acuite dalla consapevolezza agghiacciante di essere un anacronismo vivente. Norma è una farfalla in una teca di vetro, ancora splendida nei suoi frammenti di gloria, ma incapace di volare. La sua patetica grandezza, la sua disperata tenacia nel credere a un ritorno trionfale, rivelano la vulnerabilità intrinseca di chi ha vissuto in funzione del proprio riflesso sugli schermi e nella mente delle masse.

Un film splendido nel suo amaro cinismo di fondo, che non si limita a denunciare ma invita a una profonda riflessione sulla natura effimera della fama e sulla crudeltà intrinseca dell'industria dello spettacolo. La sua modernità è disarmante, poiché i temi dell'obsolescenza e della ricerca ossessiva di una giovinezza perduta risuonano con forza ancora oggi, in un'epoca dominata da un'altra forma di industria della celebrità, forse ancora più vorace. Il cinismo di Wilder non è mai sterile; è un cinismo che disseziona il mito per rivelarne l'anima, per quanto malata e contorta essa possa essere.

Basta guardare le apparizioni di figure di spicco di Hollywood che popolano l'universo del film per rendersi conto della grandezza e dell'audacia di quest'opera. Non meno di sette celebrità del passato appaiono, e nessuno di loro in una luce del tutto lusinghiera, quasi a voler sottolineare la complice autocritica del sistema. Si tratta di un'operazione metanarrativa di una profondità vertiginosa, un gioco di specchi che confonde i confini tra finzione e realtà storica, amplificando il senso di tragedia e di beffarda ironia.

Buster Keaton, per esempio, una volta genio della comicità fisica, gigante del cinema muto la cui espressività era un poema visivo, è qui ridotto ad una sorta di statua di cera, una patetica figura in cui l’invecchiamento fisico è sopraggiunto in parallelo all’avvento del sonoro, rendendolo, in un certo senso, muto per la seconda volta. E che dire di Erich von Stroheim nei panni di Max von Mayerling, il fedele maggiordomo, ex marito di Norma e, cosa più straziante, suo ex regista? La sua presenza è un monumento vivente alla devozione e al sacrificio, ma anche un macabro promemoria di un'epoca in cui i registi erano figure imponenti, quasi dei demiurghi, ora ridotti a servitori silenziosi. Questo coro di fantasmi contribuisce a trasformare la villa Desmond in un vero e proprio cimitero delle illusioni, un luogo dove i sogni si sono pietrificati.

Ma il cuore pulsante della storia è Norma Desmond, ex regina del muto, interpretato con intensità ipnotica da Gloria Swanson, lei stessa ex regina del muto. La scelta di Swanson non fu casuale, ma un colpo di genio di Wilder e del suo co-sceneggiatore Charles Brackett. Swanson, che aveva raggiunto il culmine della sua fama nell'era del muto e aveva sperimentato il difficile passaggio al sonoro e il successivo declino, non recita semplicemente Norma: la incarna, le presta la sua stessa biografia e la sua ineguagliabile teatralità. Ogni suo gesto, ogni espressione degli occhi febbricitanti, ogni ruggito, è intriso di una verità dolorosa e audace.

La sua performance è delirante, allucinata, una vertigine di grandiosità e fragilità. La sua caduta dal firmamento di Hollywood è melodrammatica e tragica e, per proprio questi motivi, perfetta. È un ritratto che oscilla tra il patetico e il terrificante, tra il sublime e il grottesco, in un equilibrio precario che solo un'attrice del suo calibro avrebbe potuto mantenere. Il suo "Alright, Mr. DeMille, I'm ready for my close-up" non è solo la battuta finale di un film, ma il grido lacerante di un'anima che rifiuta di essere dimenticata, un'invettiva immortale contro l'oblio che il cinema, pur creando miti, è altrettanto rapido a generare.

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