Synecdoche, New York
2008
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Regista
Scomporre Synecdoche, New York è un’impresa simile a eseguire un’autopsia su un fantasma con strumenti forgiati dal mercurio. L’opera prima alla regia di Charlie Kaufman non è un film nel senso convenzionale del termine; è un’architettura cognitiva, un artefatto filosofico precipitato sullo schermo, un labirinto di specchi costruito sulla sabbia del tempo che scorre. Se 8½ di Fellini era il grido di un artista in crisi creativa, un lamento sublime e circoscritto, Synecdoche, New York è l'universo intero di quella crisi che collassa in un buco nero di solipsismo, inghiottendo non solo l'artista ma la vita stessa, la sua rappresentazione, la memoria di quella rappresentazione e persino il pubblico che osserva impotente.
Il regista teatrale Caden Cotard, incarnato da un Philip Seymour Hoffman la cui performance trascende la recitazione per diventare una sorta di sismografo dell’anima, è un catalogo ambulante di malanni fisici e spirituali. Ogni sua afflizione, dalla pustola inspiegabile alle lacrime colorate, è una metafora somatizzata della sua esistenza frammentata. Quando riceve una sovvenzione MacArthur, il cosiddetto "genius grant", Caden non la usa per creare arte, ma per tentare l’impossibile: inscenare la verità. L’assoluta, brutale, non mediata verità della propria vita. Affitta un magazzino a Manhattan, vasto come una cattedrale industriale, e inizia a costruire una replica in scala 1:1 della sua esistenza, ingaggiando attori per interpretare se stesso e le persone che popolano il suo mondo.
Qui, Kaufman evoca direttamente la vertigine intellettuale di Jorge Luis Borges. L'impresa di Caden è la materializzazione del racconto borgesiano Sull'esattezza nella scienza, dove i cartografi di un impero creano una mappa così dettagliata da coincidere punto per punto con il territorio stesso. Ma Kaufman spinge l'aporia ancora oltre: la mappa di Caden non si limita a replicare il territorio, lo consuma. La vita reale e la sua messa in scena iniziano a sanguinare l'una nell'altra, un processo di osmosi metafisica che dissolve ogni confine. L'attore che interpreta Caden (Sammy, interpretato da Tom Noonan) inizia a dare consigli al Caden reale. Nuovi attori vengono assunti per interpretare gli attori che interpretano i personaggi originali. La scenografia si espande per includere repliche delle repliche, in una regressione all'infinito che ricorda le scatole cinesi o un frattale di Mandelbrot dell'angoscia esistenziale.
Il titolo stesso, "Synecdoche", è la chiave di volta ermeneutica. La sineddoche è la figura retorica in cui una parte sta per il tutto. Caden è la parte (un uomo) che cerca di rappresentare il tutto (la vita, l'universo, la verità). Ma in questo processo, ogni "tutto" si rivela essere solo un'altra "parte" di un sistema più vasto e inconoscibile. La sua opera teatrale, concepita come una sineddoche della sua vita, diventa la sua vita stessa, rendendolo una sineddoche della sua stessa arte. È una prigione logica dalla quale non c’è scampo, un'elegia per l’impossibilità di trascendere la propria, limitata coscienza. Non è un caso che il cognome del protagonista, Cotard, alluda alla Sindrome di Cotard, un disturbo delirante in cui chi ne soffre crede di essere morto, di non esistere o di aver perso i propri organi interni. Caden è un morto che cammina, un guscio la cui unica realtà è la compulsiva documentazione della propria inesistenza.
Mentre la struttura narrativa si avvita su se stessa, il tempo perde la sua linearità e diventa un liquido denso e imprevedibile. Anni, decenni, passano nel tempo di un montaggio, di una frase. Personaggi invecchiano, muoiono, vengono rimpiazzati da altri attori. La casa di Hazel, l'amore potenziale e perpetuamente mancato di Caden, è costantemente in fiamme, metafora visiva tanto surreale quanto straziante di un'emergenza perpetua, di un disastro che non si consuma mai del tutto ma che brucia lentamente, inesorabilmente. È un'immagine che avrebbe potuto partorire la penna di un Kafka o il pennello di un Magritte, un’icona dell'ansia moderna che pervade l'opera. Il film è stato girato e concepito in un’America post-11 settembre, un’epoca di paranoia latente e di certezze crollate. Sebbene Kaufman eviti qualsiasi commento politico diretto, l'atmosfera di disastro imminente, di sorveglianza (Caden spia la sua ex moglie attraverso i suoi quadri microscopici) e di disintegrazione di una narrazione unificante sembra essere un riflesso culturale di quel preciso momento storico.
Se 8½ è il punto di partenza, il parallelo più calzante nell'era contemporanea è forse con Inland Empire di David Lynch. Entrambi i film sono odissee da incubo nella psiche di un performer che si smarrisce nel ruolo, dove la distinzione tra realtà e finzione viene completamente annientata. Ma laddove Lynch ci trascina in un inferno viscerale fatto di corridoi bui e terrori primordiali, Kaufman ci imprigiona in un purgatorio intellettuale, un labirinto costruito con la logica e la ragione portate alle loro estreme e più folli conseguenze. L'orrore in Synecdoche non è sovrannaturale, è esistenziale. È l'orrore di rendersi conto che ogni tentativo di comunicare, di amare, di creare qualcosa di "reale" è condannato a essere una pallida, fallace imitazione.
L'opera di Caden diventa una sorta di anti-Recherche proustiana. Se Marcel Proust dedicò la sua vita a rievocare e fissare il tempo perduto attraverso la scrittura, trasmutando la memoria in arte immortale, Caden fa l'opposto: sacrifica il presente e il futuro sull'altare di una rappresentazione ossessiva, perdendo il tempo nel tentativo di catturarlo. La sua opera non redime la vita, la divora. È un monumento colossale e in continua espansione al fallimento, all'incompiutezza, alla solitudine.
Nel finale, dopo una vita intera trascorsa nel magazzino, un Caden anziano e malconcio abbandona il ruolo di regista e accetta di interpretare Ellen, la donna delle pulizie che ha ereditato la direzione della sua stessa vita-opera. Vive i suoi ultimi giorni attraverso gli occhi di un altro, ricevendo istruzioni tramite un auricolare. È la capitolazione definitiva del sé. L'ultima indicazione che riceve, mentre il set/mondo intorno a lui viene smantellato, è semplice e definitiva: "Muori". È un momento di una tristezza cosmica, ma anche di una strana, inaspettata pace. La fine del progetto coincide con la fine della coscienza. L’arte e la vita, dopo aver lottato ed essersi fuse per decenni, si estinguono simultaneamente.
Synecdoche, New York è un film monumentale, estenuante e profondamente umano. È un'opera che richiede allo spettatore non una sospensione dell'incredulità, ma una sospensione della propria concezione di narrativa, di tempo e di identità. Non offre risposte, ma solo domande più profonde e complesse. È il testamento di un autore che ha guardato nell'abisso della condizione umana – la nostra disperata ricerca di significato, il terrore della mortalità, l'invalicabile prigione della nostra soggettività – e ha avuto il coraggio di non distogliere lo sguardo, ma di ricreare quell'abisso, mattone dopo mattone, attore dopo attore, in un magazzino di New York. E alla fine, ci lascia con la consapevolezza struggente che ogni vita, per quanto grandiosa o insignificante, è un'opera unica, irripetibile e destinata a un pubblico di uno solo.
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