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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

TÁR

2022

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Regista

Un metronomo batte nel buio. Non è un suono, è una presenza. È il tempo sezionato, domato, reso schiavo. È l'ossessione di Lydia Tár, e il primo indizio che Todd Field ci offre per decifrare il suo monumentale, glaciale capolavoro. TÁR non è un film su una direttrice d'orchestra; è un'autopsia dell'architettura del potere, una discesa agli inferi in forma di sonata, un thriller psicologico mascherato da biopic di un personaggio che, con diabolica astuzia, non è mai esistito.

Cate Blanchett non interpreta Lydia Tár. La incarna, la evoca, la forgia in una performance che trascende la mimesi per diventare una sorta di possessione artistica. Il suo corpo è un diagramma di controllo: la postura rigida, le mani che tagliano l'aria come bisturi, lo sguardo che non osserva ma seziona. Tár è un Golem assemblato con i frammenti dei grandi titani del Novecento, un colosso di talento e hubris che dirige la Filarmonica di Berlino come un generale prussiano comanda le sue truppe. Ha vinto un EGOT, ha scritto libri, ha un'aura di infallibilità quasi divina. Ma Field, con la precisione chirurgica di un Michael Haneke che filma la borghesia austriaca, ci mostra fin da subito le crepe in questa facciata di marmo.

Il film si apre con un lungo, quasi estenuante prologo: un'intervista sul palco del New Yorker Festival. È un'infodump magistrale, un'esposizione che serve non a raccontarci chi è Tár, ma a mostrarci come lei costruisce la sua stessa leggenda. Parla di tempo, di "teshuvah" (pentimento, ritorno), di Mahler. Ogni parola è calibrata, ogni gesto una performance. È qui che il film pianta i suoi semi avvelenati. Siamo sedotti dalla sua intelligenza, dal suo carisma, proprio come lo sono i suoi studenti, i suoi musicisti, le sue amanti. Field ci rende suoi complici, ci fa accomodare in prima fila nel suo teatro personale, per poi costringerci a osservare il lento, inesorabile crollo del palcoscenico.

La struttura narrativa di TÁR ricorda meno un film e più un romanzo modernista alla Thomas Mann. Come Gustav von Aschenbach in Morte a Venezia, Tár è una figura di suprema disciplina artistica la cui ossessione per una forma di bellezza ideale (nel suo caso, l'esecuzione perfetta della Quinta di Mahler) la conduce verso la disintegrazione morale e psicologica. Ma se Mann ambientava il suo racconto nel crepuscolo di un'Europa decadente, Field posiziona la sua tragedia nel cuore pulsante delle nostre attuali guerre culturali. La celebre scena della masterclass alla Juilliard è il campo di battaglia. Quando Tár demolisce verbalmente uno studente "BIPOC pangender" che si rifiuta di suonare Bach a causa del suo misoginismo, il film si rifiuta di prendere posizione. Non è un pamphlet contro la "cancel culture", né una difesa incondizionata del canone occidentale. È la drammatizzazione di uno scontro insanabile: quello tra un'idea di arte come entità trascendente e autonoma e una nuova sensibilità che la vede come un prodotto inestricabilmente legato all'identità e alla politica del suo creatore. Tár, nel suo monologo feroce, difende la prima posizione con l'arroganza di chi si sente al di sopra del giudizio, senza rendersi conto che le regole del gioco sono cambiate.

Field filma questo dramma con una freddezza che ricorda il Kubrick di Barry Lyndon. La fotografia di Florian Hoffmeister intrappola i personaggi in composizioni geometriche e spazi architettonici brutalisti che sono lo specchio dell'anima gelida di Lydia. I suoi appartamenti a Berlino non sono case, ma mausolei del gusto, spazi asettici dove ogni oggetto è una dichiarazione di status. È in questi spazi che l'orrore inizia a insinuarsi. Non è un orrore soprannaturale, ma la perturbante manifestazione della sua coscienza colpevole. Un metronomo che si attiva da solo nel cuore della notte. Un suono lontano che sembra un urlo. I disegni enigmatici lasciati dalla sua figlia adottiva. Il volto di una ex-protégé, Krista, che la perseguita come un fantasma digitale, un doppelgänger spettrale la cui assenza è più potente di qualsiasi presenza.

Qui il film si avvicina al territorio di David Lynch, dove la realtà si sfrangia e il subconscio emerge in superficie. Siamo intrappolati nella percezione sempre più inaffidabile di Tár. Le accuse di abuso di potere e di grooming che emergono non sono mai mostrate in flashback espliciti. Le apprendiamo attraverso frammenti di email, video tagliati ad arte, pettegolezzi. Field ci nega la certezza di un verdetto, costringendoci a vivere nell'ambiguità. Tár è una vittima di una caccia alle streghe digitale o un mostro che finalmente riceve la sua giusta punizione? La risposta, geniale e frustrante, è: entrambe le cose, e nessuna delle due. Il film non è interessato al giudizio, ma al processo: l'anatomia di una caduta, la meccanica con cui una reputazione viene smantellata nell'era dell'informazione istantanea.

Il vero fulcro tematico, la domanda che pulsa sotto la pelle del film, è quella eterna sulla separazione tra arte e artista. Tár la incarna nel modo più radicale. Lei è la sua arte. Il suo controllo maniacale sulla partitura è lo stesso che esercita sulle persone che la circondano, in particolare sulla sua compagna e primo violino Sharon (una magnifica e dolente Nina Hoss) e sulla sua assistente-factotum Francesca (Noémie Merlant). Le sue relazioni sono transazioni di potere, estensioni della sua volontà artistica. Quando questo potere le viene tolto, Tár non perde solo il lavoro; perde il suo stesso senso di sé. La sua identità, costruita con tanta meticolosa fatica, si rivela essere un castello di carte.

E poi c'è il finale, un colpo di genio di una cattiveria sublime, che sposta il film su un piano completamente nuovo, quasi surreale. Dopo essere stata esiliata dal paradiso della musica classica europea, ritroviamo Lydia in un paese del sudest asiatico, pronta a dirigere un'orchestra locale. La preparazione è la stessa: la disciplina, lo studio ossessivo della partitura. La tensione cresce mentre si dirige verso il podio, vestita di tutto punto. Ci aspettiamo una qualche forma di redenzione attraverso la musica, un ritorno alla purezza dell'arte. E invece, la camera si allarga e rivela il pubblico: una sala piena di cosplayer. Sta dirigendo la colonna sonora di un videogioco, Monster Hunter.

È una conclusione devastante e perfetta. Non è una caduta totale nell'oblio, ma qualcosa di molto più crudele: una parodia della sua grandezza passata. È finita in un purgatorio culturale dove il suo immenso talento viene messo al servizio di un'arte che lei, presumibilmente, disprezza. Ma sta ancora dirigendo. Sta ancora controllando il tempo. L'arte, nella sua forma più "bassa" e popolare, le offre un'ultima, ironica possibilità di fare l'unica cosa che sa fare. È la nemesi più adatta per una donna che si credeva un dio: essere ridotta a una sacerdotessa di un rito che non comprende, per un pubblico di cui non le importa.

TÁR è un film denso, esigente, a tratti ostico, che rifiuta ogni facile consolazione. È un saggio sulla natura del genio e della mostruosità, un trattato sulla fluidità del potere nell'era digitale e una meditazione quasi metafisica sul tempo. È il tipo di cinema adulto, complesso e ambizioso che credevamo estinto, un'opera che continuerà a perseguitarci, a farci discutere e a svelare nuovi strati di significato a ogni visione. Proprio come una grande sinfonia.

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