Taxi Driver
1976
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Regista
Travis Bickle è un veterano del Vietnam riciclatosi come tassista, un'anima scarnificata che porta i segni invisibili ma laceranti di un conflitto che l'ha espulso dalla normalità e l'ha gettato in una terra desolata post-bellica, dove l'eroismo è solo un ricordo sbiadito e la disillusione la moneta corrente. Vive come un disadattato ai margini della società, la sua angosciante solitudine rimbalza tra le quattro pareti del suo appartamento, un cubicolo soffocante che riflette la prigione della sua mente. È un’esistenza ai margini, quasi monastica nella sua privazione di connessioni umane significative, che lo rende un prototipo dell’alienazione urbana, un tema così caro al cinema americano degli anni ’70, da Midnight Cowboy a Serpico, in cui la città stessa si fa personaggio, una megalopoli tentacolare e malata.
Il suo unico contatto con il mondo esterno ce l’ha quando guida, in quelle interminabili ore notturne che lo vedono navigare per le strade bagnate di New York. Davanti ai suoi occhi scorrono le notti della città in una galleria di marciume e indecenza tali da saturarlo, da nausearlo profondamente. Non è solo la sporcizia visibile o il sudore dei corpi, ma un miasma morale che si insinua, accentuato dalla fotografia livida di Michael Chapman, che trasforma i vicoli e i neon in una tavolozza di verdi malsani e rossi infernali, quasi espressionistica. La New York di Travis è un inferno dantesco moderno, una Babilonia decadente che egli, nel suo delirio messianico, sente il bisogno impellente di purificare.
S’innamora di un’attivista politica, Betsy, una figura luminosa e irraggiungibile che incarna la purezza e l'idealismo di un mondo dal quale Travis è irrimediabilmente escluso. Il suo goffo tentativo di corteggiarla, che culmina nel portarla a vedere un film porno, non è solo una gaffe sociale, ma un sintomo agghiacciante della sua totale disfunzionalità comunicativa, della sua incapacità di decodificare le regole elementari dell'interazione umana. È la prova che il suo navigatore interiore è rotto, irrimediabilmente guasto.
Le continue ingiustizie a cui l’uomo assiste – la violenza sordida, la corruzione dilagante, la noncuranza generalizzata – non ultima il maltrattamento di una prostituta minorenne, Iris, lo precipiteranno in uno stato di negazione totale, in cui la realtà esterna si deforma e collassa sotto il peso del suo tormento interiore. La feccia che lo circonda, quel fango morale che avverte ovunque, si fonderà osmoticamente con la sua angoscia interiore fino ad avvolgere il mondo intorno a lui, facendolo esplodere. Non è più solo osservatore, ma si trasforma in agente, nel suo personale vendicatore di giustizia, in un gesto che ricorda la discesa nell'abiezione morale di un personaggio dostoevskiano, una sorta di Raskolnikov americano senza la possibilità di redenzione intellettuale. La sua metamorfosi fisica, l'allenamento ossessivo, il taglio di capelli alla mohawk, sono passi ritualistici verso un'autoinvestitura che sfocia nel parossismo della violenza.
Attraverso la redenzione di Iris, o per meglio dire, attraverso la sua determinazione a strapparla via dalle grinfie del suo sfruttatore, Travis intravede una speranza di salvezza, un’occasione per scrollarsi di dosso la lordura che lo ricopre. Questa crociata personale, seppur sanguinosa e delirante, gli offre una momentanea purificazione, una via d'uscita dalla sua insopportabile solitudine. Tuttavia, il finale ambiguo, quasi beffardo, che lo vede acclamato come un eroe, lascia lo spettatore con un retrogusto amaro e la persistente domanda: è stata una vera redenzione o solo un'altra allucinazione collettiva, un'ennesima prova della cecità di una società incapace di riconoscere la patologia dietro la violenza?
La chiave di volta di quest’opera resta la radiografia psicologica del protagonista e la sua inesorabile deriva nella follia. Scorsese, con la sceneggiatura viscerale di Paul Schrader (profondamente influenzato da Camus, Sartre e da Robert Bresson di Pickpocket), ci cala nella psiche di Travis con una tale intensità che il confine tra realtà e percezione distorta si fa labile. La performance di Robert De Niro è leggendaria: la sua dedizione al metodo, l'aver guidato un taxi per settimane a New York per calarsi nel personaggio, le sue improvvisazioni iconiche, hanno dato vita a un'icona cinematografica della disperazione e della paranoia.
La scena memorabile, tatuata nell’immaginario di tutti noi con la forza di un archetipo, è quella in cui Travis affronta il suo riflesso allo specchio con le armi in pugno, apostrofandolo con un minaccioso: “Ehi tu, ce l’hai con me?”. È un momento di pura schizofrenia, un dialogo interiore esternato, una prova generale del suo imminente, inevitabile collasso violento. Quel monologo, frutto dell'improvvisazione di De Niro, è diventato il grido di battaglia di ogni anima disperata che si sente in guerra col mondo intero.
La bellezza e l'inquietudine di Taxi Driver risiedono proprio nella sua metamorfosi del concetto di violenza. Dapprima una visione laterale della violenza: di sfuggita nelle strade, attraverso i finestrini sporchi del taxi di Travis, un rumore di fondo della metropoli. Poi una violenza che crepita come un fuoco sotto la cenere nell’animo di Travis, repressa e riaffiorante a tratti nei suoi comportamenti stralunati e paranoici, nei suoi sguardi febbrili. Infine, la violenza in tutta la sua spietata potenza che erutta sommergendo tutto il Reale, una catarsi sanguinosa che, lungi dal purificare, lascia un velo di orrore e ambiguità. La colonna sonora di Bernard Herrmann, la sua ultima, è un capolavoro a sé stante, un accompagnamento jazz-noir che con le sue note stridenti e malinconiche, quasi una suite di tormenti, amplifica ogni fremito dell’anima di Travis.
Un documento quasi clinico, dunque, che il regista compila con spietata lucidità cinematografica, quasi un cronista che segue la deriva di un uomo con glaciale professionalità, senza giudizio morale esplicito, ma con una precisione chirurgica nell'indagare le viscere di una mente turbata. Taxi Driver non è solo un film sulla violenza, ma un'esplorazione inquietante della solitudine, della malattia mentale e dell'assenza di senso, proiettate su uno sfondo di disagio sociale post-Vietnam che rendeva l'America fertile terreno per la nascita di antieroi e figure borderline. La sua influenza è stata enorme, un faro nel genere thriller psicologico e un modello per generazioni di cineasti, un'opera senza tempo che continua a interrogarci sul lato oscuro dell'animo umano e sulla violenza insita nella società.
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