Terminator 2 - Il giorno del giudizio
1991
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Regista
Un’eresia. Se il primo Terminator era il Vangelo apocrifo di un horror a basso budget, un testo sacro scritto nel neon e nel sangue delle strade di Los Angeles, allora Terminator 2: Il giorno del giudizio è la sua monumentale, costosissima esegesi gnostica. Una revisione teologica che prende il demone della macchina del primo film e lo trasfigura in un angelo custode, un golem di cromo inviato non per distruggere, ma per proteggere il messia. James Cameron non dirige un sequel; orchestra una palingenesi. Ribalta la premessa con la stessa brutale eleganza con cui il suo cyborg ricarica un fucile a pompa, trasformando un incubo da slasher fantascientifico in un'epica odissea sulla famiglia, il libero arbitrio e la possibilità di redenzione per un'umanità sull'orlo dell'autodistruzione.
L'operazione è di una sfrontatezza intellettuale e produttiva che solo Cameron, all'apice del suo delirio di onnipotenza pre-Titanic, poteva concepire. Nel 1991, il Muro di Berlino era appena crollato, ma l'ansia nucleare, il terrore latente di un olocausto atomico che aveva permeato la cultura della Guerra Fredda, era ancora un fantasma nel nostro inconscio collettivo. Cameron afferra questo spettro e gli dà una forma cinematografica devastante, non come monito politico, ma come fondale cosmico per un dramma squisitamente umano. La sequenza dell'incubo nucleare di Sarah Connor non è propaganda; è l'Apocalisse di Giovanni dipinta da Hieronymus Bosch con la tecnica della Industrial Light & Magic. È il trauma primordiale che giustifica ogni azione, ogni paranoia, ogni sacrificio. È il "perché" ultimo di un film che altrimenti rischierebbe di essere solo un "come" spettacolare.
E che "come". La vera rivoluzione di T2, il suo salto quantico che ha lasciato un cratere nel panorama cinematografico, è il T-1000. Prima di lui, il mostro digitale era una curiosità poligonale. Dopo di lui, è diventato una minaccia metafisica. Robert Patrick, con la sua glaciale e serpentina fisicità, incarna un terrore di tipo nuovo, post-industriale. Se il T-800 di Schwarzenegger era la paura dell'era industriale – la macchina come forza inarrestabile, l'acciaio, i pistoni, la catena di montaggio che si ribella – il T-1000 è la paura dell'era dell'informazione. È software. È un virus. È mercurio liquido, privo di forma fissa, capace di imitare e corrompere. Non ha un'identità, ma può assumere qualsiasi identità. È l'archetipo del "deepfake" trent'anni prima della sua esistenza, il terrore definitivo in un mondo dove la superficie delle cose non è più garanzia della loro essenza. La sua invulnerabilità ai proiettili non è solo un espediente visivo; è una dichiarazione epistemologica. Come si combatte un nemico che non ha un centro, che non è un "oggetto" ma un "processo"? È lo scontro tra l'analogico e il digitale, tra l'hardware e il software, tra il corpo solido e l'informazione fluida.
In mezzo a questo scontro titanico si muove la trinità più disfunzionale e commovente della storia del cinema d'azione. Sarah Connor (Linda Hamilton) non è più la "final girl" del primo film. È diventata Cassandra, la profetessa inascoltata e reclusa in un manicomio, il suo corpo scolpito dalla disperazione e dalla disciplina in un'arma vivente. La sua trasformazione è tragica. Per salvare l'umanità, ha dovuto sacrificare gran parte della propria. I suoi monologhi in voice-over, che riecheggiano come dispacci da un futuro che cerca disperatamente di non accadere, sono il cuore filosofico del film. È una figura quasi shakespeariana, una Medea post-moderna pronta a compiere atti terribili in nome di un bene superiore, sospesa sull'abisso della disumanizzazione.
Poi c'è John Connor, il futuro salvatore del mondo, qui un moccioso dei sobborghi che gioca ai videogiochi e clona bancomat. La scelta di Edward Furlong, con la sua vulnerabilità androgina e la sua aria strafottente, è un colpo di genio. Demitizza il messia, lo rende fallibile, umano. È attraverso i suoi occhi che assistiamo al miracolo centrale del film: l'umanizzazione della macchina. È lui il Pigmalione che insegna alla sua statua di metallo a sorridere, a capire il valore di una vita, a imparare perché gli esseri umani piangono. Il loro legame è una versione high-tech e struggente di un romanzo di formazione, un rapporto padre-figlio impossibile che diventa l'unica speranza per il futuro.
E infine, lui. Arnold. Il monolite. Il ritorno di Schwarzenegger nel ruolo che lo ha definito è una delle più grandi inversioni di ruolo nella storia del cinema. Cameron capisce che la sua limitata gamma recitativa è, in realtà, la sua più grande forza. Il suo volto impassibile diventa una tela su cui proiettiamo il lento, quasi impercettibile, emergere di una coscienza. La sua performance è un capolavoro di fisicità e sottrazione. Il T-800 è un computer che apprende, un'intelligenza artificiale che, a contatto con l'irrazionalità e l'affetto umano, subisce un'evoluzione inaspettata. La sua celebre frase, "I know now why you cry, but it's something I can never do", è una delle più potenti ammissioni di alterità e amore mai scritte per un personaggio non umano. Risuona con l'eco del mostro di Frankenstein di Mary Shelley, la creatura che anela a una comprensione che la sua stessa natura gli preclude. Il pollice alzato che affonda nell'acciaio fuso non è un semplice addio; è una teodicea. È la macchina che si sacrifica per l'uomo, che dimostra di aver compreso il valore della vita più degli uomini stessi che l'hanno creata. È il battesimo e l'estrema unzione di un nuovo tipo di eroe.
"Non c'è fato, ma quello che costruiamo noi". Questa frase, incisa su un tavolo da picnic, è il manifesto esistenzialista del film. In un genere spesso dominato dal determinismo e dalla predestinazione, T2 lancia un grido di battaglia a favore del libero arbitrio. La lotta contro Skynet non è solo una guerra contro macchine assassine; è una guerra contro l'idea stessa di un futuro già scritto. L'assalto alla Cyberdyne Systems è un atto di terrorismo filosofico, un tentativo di cancellare un peccato originale non ancora commesso, di distruggere l'idea prima che diventi realtà. È un film che crede, con una sincerità quasi commovente, nella capacità dell'individuo di deviare il corso della storia.
Terminator 2 è un'opera autopoietica, un sistema perfettamente chiuso e funzionante in cui ogni ingranaggio – dalla colonna sonora martellante di Brad Fiedel al montaggio chirurgico di Conrad Buff – serve a uno scopo narrativo ed emotivo più grande. È il punto di non ritorno del blockbuster moderno, un'opera che ha dimostrato che la scala epica e lo spettacolo visivo mozzafiato non solo possono coesistere con una profondità tematica e una complessità emotiva, ma possono amplificarle a vicenda. È il raro caso di un film che è, allo stesso tempo, un'opera d'arte cinetica di ineguagliabile perfezione e un saggio commovente sulla condizione umana. L'immagine finale, quella strada buia che si perde nella notte, non è una promessa di salvezza, ma un'affermazione di possibilità. Il futuro non è scritto. È una strada vuota, e siamo noi a doverla percorrere.
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