La Regina d'Africa
1951
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Regista
Un’opera con cui Huston, con un tocco quasi eretico per l’epoca, introdusse un’inedita e folgorante fusione di generi, iniettando l’ironia tagliente e la scanzonata dialettica del botta e risposta, tipiche della commedia sofisticata e della screwball, nel consolidato e spesso serioso pattern d’avventura. Lì dove il cinema d’epopea coloniale o le narrazioni di esplorazioni esotiche tendevano a indulgere in un’austera gravitas, se non in una retorica del sublime o dell'eroismo monodimensionale, Huston osò contaminare il genere con la leggerezza dell’ingegno verbale e la complessità di personaggi ben lontani dagli archetipi granitici.
Huston intese cioè scrostare l’alone di pomposità che circondava il genere avventura, privandolo della sua ingombrante serietà autoimposta, senza rinunciarvi completamente e senza per questo scadere nella mera parodia. Al contrario, il sottile humour e la verve caustica si facevano strumento per scavare più a fondo nell’umanità dei protagonisti, esaltando la loro resilienza e le loro contraddizioni proprio attraverso il contrasto con le situazioni limite, in un equilibrio narrativo che precorreva approcci più moderni alla decostruzione dei generi.
Ne uscì un capolavoro annunciato, un vero e proprio saggio sulla chimica cinematografica, anche grazie alla verve irresistibile e alla singolare, quasi bizzarra, alchimia dei due protagonisti: Humphrey Bogart e Katharine Hepburn. La loro collisione sullo schermo non fu semplicemente un incontro di star, ma una sublimazione di due metodologie attoriali e due personalità forti, capaci di dare vita a un duello di caratteri che è, in sé, l’anima pulsante del film, elevando il convenzionale viaggio avventuroso a un’esplorazione psicologica e sentimentale.
La storia è quella di Rose Sayer, un’inacidita e inflessibile missionaria inglese, figlia di un puritano e devota ai dettami della sua fede e del suo paese, che durante il conflitto del 1915-18 – una parentesi storica spesso ignorata nel contesto africano del primo conflitto mondiale – si trova costretta a discendere un fiume africano sull’unica imbarcazione disponibile, con l’aiuto di Charlie Allnut, un ruvido, ubriacone e poco convenzionale capitano di nave, la cui volgarità apparente nasconde una vulnerabilità e un’onestà inaspettate. Il contrasto tra il suo cinismo quasi dissoluto e il rigore vittoriano di lei è la scintilla che accende ogni dialogo, ogni sguardo, ogni silenzio.
L’intento paradossale della donna è quello di affondare una nave tedesca, la temuta Königin Luise, che è ancorata in un lago dove il fiume va a confluire. Questa missione, apparentemente assurda e decisamente sproporzionata per due individui e una barca fatiscente, funge da formidabile catalizzatore per la loro trasformazione. Il film non è tanto il resoconto di una missione eroica, quanto l’odissea di due anime che, sotto la pressione di un pericolo esterno e la costante frizione interna, si spogliano delle loro sovrastrutture sociali e psicologiche per rivelare una tenera e autentica essenza.
Inevitabilmente tra i due protagonisti, attraverso un processo lento e deliziosamente agonistico, scoppierà un amore condito di velenose battaglie dialettiche, di battute che sfiorano l’offesa eppure celano un affetto crescente, e circondato dalla lussureggiante e spesso minacciosa natura di un’Africa quasi incontaminata. Quest'ultima non è mero sfondo, ma un personaggio co-protagonista: con la sua bellezza selvaggia e la sua implacabile indifferenza, con le rapide irruente, le sanguisughe voraci e gli insetti omnipresenti, essa mette a nudo i caratteri, spingendoli ai loro limiti e forgiando la loro inaspettata unione.
Huston, in un atto di audacia produttiva e logistica che rasentava la follia, andò in Congo a girare il suo film, un’impresa che oggi apparirebbe impensabile per la sua complessità. La lavorazione fu inevitabilmente costellata d’incidenti, ritardi snervanti e malattie debilitanti a causa della natura selvaggia e inospitale dei luoghi. Gran parte della troupe e del cast, inclusi Bogart e Hepburn, furono colpiti da dissenteria o malaria, in netto contrasto con Huston e il direttore della fotografia Jack Cardiff che, si narra, rimasero relativamente illesi grazie al loro abbondante consumo di whisky. Le difficoltà reali patite sul set, l’umidità soffocante, gli insetti, i serpenti e le continue avarie dell’imbarcazione (spesso trainata con funi umane o sostituita da una replica su carrelli nelle scene più complesse) hanno impresso nel film una patina di autenticità e una palpabile sensazione di disagio che contribuiscono alla sua immortale risonanza. Non un mero studio in studio, ma un’immersione totale che riversa sullo schermo l’esperienza vissuta, quasi un cinema-verità ante litteram nell'approccio alla fatica fisica.
Accolto freddamente all’uscita nel 1951, in un’epoca in cui il pubblico americano era forse più propenso alla drammaticità esasperata – doveva vedersela al botteghino con giganti come Un Tram chiamato Desiderio di Elia Kazan, e non fu facile per una commedia avventurosa pur così stratificata –, La Regina d'Africa ebbe un successo quasi postumo, cementando la sua reputazione negli anni a venire e diventando un classico atemporale. Questo tardivo ma meritato riconoscimento fruttò l’unico Oscar vinto in carriera a Bogart come Miglior Attore, un coronamento per una delle sue interpretazioni più sfumate e meno archetipiche, in cui il burbero affascinante si arricchiva di una commovente umanità.
Un’opera ancora oggi insuperata quanto a trovate sceniche – dalla memorabile sequenza delle rapide, un tour de force di suspense e liberazione, al momento iconico delle sanguisughe, fino allo scontro finale con la nave tedesca, giocato sull'audacia e il caso – e a sceneggiatura effervescente, che danza tra l'arguzia più affilata e momenti di disarmante tenerezza. La sua capacità di fondere avventura esotica, commedia romantica e dramma di sopravvivenza in un unico, inconfondibile tono, rende La Regina d’Africa non solo un’eccellenza del genere, ma un punto di riferimento imprescindibile nella storia del cinema, un esempio luminoso di come la maestria registica e l'interpretazione sublime possano elevare una semplice storia a epopea dell'animo umano.
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