L'Amico Americano
1977
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Regista
Wim Wenders in un’opera al nero tratta da un romanzo di Patricia Highsmith, ma non una semplice trasposizione. Wenders, con la sua inconfondibile sensibilità, si appropria della materia letteraria per farne un veicolo di riflessione sull’identità, la colpa e l’ambigua attrazione per il lato oscuro che permea gran parte della filmografia e della narrativa di genere. Highsmith, maestra indiscussa nel delineare le derive psicologiche più sottili e nell'instaurare una moralità fluida e inquietante nei suoi personaggi, trova in Wenders un interprete capace di tradurre visivamente l'atmosfera di disagio e la tensione latente che caratterizzano le sue pagine, spogliando il racconto di ogni inutile orpello per concentrarsi sulla corrosione interiore. In questo senso, L'Amico Americano si discosta dalle più patinate versioni filmiche di Ripley, come Il talento di Mr. Ripley di Minghella o persino il classico Plein Soleil di Clément, per abbracciare una grana più ruvida, quasi documentaristica nella sua crudezza psicologica.
Paradigmatico notare come in questo film appaiano numerosi registi nel ruolo di personaggi comprimari: Nicholas Ray, Daniel Schmid, Peter Lilienthal, Samuel Fuller. Tutti cineasti, particolarmente Fuller e Ray, i cui gangster movies hanno fatto scuola e a cui Wenders ha reso omaggio con un cameo nel film. Questa scelta non è meramente una citazione erudita o un omaggio affettuoso; è, piuttosto, un atto di profonda cinefilia e un manifesto programmatico. Wenders non si limita a far apparire i suoi maestri e colleghi, ma li cala in un contesto narrativo che riflette sulle dinamiche del cinema stesso. Nicholas Ray, il leggendario regista di Gioventù bruciata e Johnny Guitar, qui nel ruolo dell'artista falsario Derwatt, è un'ombra di sé stesso, un uomo morente e quasi spettrale che pare incarnare il tramonto di una certa Hollywood classica. Al contrario, Samuel Fuller, il cui cinema era sinonimo di energia grezza e impeto narrativo, qui appare nel suo ruolo tipico di gangster brusco ma carismatico, quasi un anacronismo vivente che riafferma la vitalità indomita del cinema di genere. Questa galleria di volti noti del "Nuovo Cinema Tedesco" e dell'epoca d'oro americana trasforma il film in una sorta di conversazione intergenerazionale sul cinema, sul mestiere di raccontare storie e sul peso dell'eredità artistica, rendendo L'Amico Americano un'opera profondamente meta-cinematografica, un viaggio non solo nel noir, ma nella storia stessa della settima arte.
La storia è quella di Tom Ripley, un trafficante di quadri nonché truffatore di mezza tacca (Denis Hopper), a cui viene commissionato un omicidio da un gangster a cui doveva del denaro. Ripley, venuto a conoscenza che Jonathan Zimmermann (Bruno Ganz), un piccolo corniciaio di provincia, è un malato terminale di leucemia, lo trasforma in un sicario per commettere l’assassinio al posto suo promettendogli del denaro. È qui che il genio di Highsmith e la visione di Wenders si fondono nel delineare una relazione perversa e affascinante. Ripley non è solo un manipolatore, ma una sorta di demiurgo amorale che crea un mostro, o forse rivela il mostro latente in un uomo comune. La sua amicizia è una forma di contagio, un veleno che si insinua nella vita ordinaria di Zimmermann, facendola precipitare in un abisso di violenza e paura. Ripley si renderà infine conto del baratro in cui ha gettato il corniciao e tenterà di salvarlo dalla ritorsione della banda che aveva commissionato l’omicidio. Questa svolta, da pura manipolazione a un contorto senso di lealtà, eleva il film oltre il semplice thriller, trasformandolo in un'esplorazione della dipendenza emotiva e della moralità in bilico. La "bontà" di Ripley è ambigua, forse dettata da un bisogno di non restare solo, di non perdere l'unica persona con cui ha stabilito una connessione autentica, seppur malata.
La coppia Ganz-Hopper è perfetta: sintonia e naturalezza come un solo uomo. Denis Hopper, all'apice della sua controculturale e ribelle iconografia, porta in scena un Ripley imprevedibile, febbrile, un fascio di nervi tesi sotto una maschera di affabile cordialità. Il suo Ripley è l'incarnazione di una certa America disillusa, affascinante e pericolosa al tempo stesso. Bruno Ganz, dal canto suo, offre una performance magistrale, intessuta di una vulnerabilità palpabile e una dignità dimessa. La sua trasformazione da uomo semplice e onesto, spinto dalla disperazione di dare un futuro alla propria famiglia, a killer riluttante è dolorosa e credibile. La loro chimica sullo schermo è l'asse portante del film, un balletto macabro tra vittima e carnefice che si trasforma progressivamente in una sorta di aberrante simbiosi, un doppio legame in cui le identità si confondono e i ruoli si invertono.
Wenders, dopo il suo periodo tedesco quasi pionieristico – costellato da opere intime e itineranti come Alice in den Städten e Im Lauf der Zeit, dove la dimensione del viaggio e della ricerca interiore definiva spesso la struttura narrativa e visiva – ha per la prima volta a disposizione una produzione con mezzi ingenti per realizzare il suo progetto. Questo non ne intacca minimamente la cifra autoriale; al contrario, gli permette di amplificare la sua visione, calando il suo sguardo malinconico e contemplativo in un universo noir che, pur essendo intrinsecamente americano, viene filtrato attraverso una sensibilità squisitamente europea. L'estetica visiva del film, curata dal fido Robby Müller, è un esempio lampante: le luci al neon che tagliano il buio delle metropoli europee – Amburgo, Parigi, Monaco – e le ombre dense che avvolgono i personaggi creano un'atmosfera sospesa, onirica eppure tangibile, tipica del New German Cinema ma intrisa di un omaggio quasi reverenziale ai classici hollywoodiani. Ogni inquadratura è una tela dipinta con toni cupi e contrasti violenti, che riflettono lo stato d'animo dei personaggi e l'ineluttabilità del loro destino.
Un’opera dai tempi molto serrati, dinamica, coinvolgente, ben girata, che pulsa di un'energia nervosa e di una suspense quasi palpabile. La colonna sonora, con i suoi toni minimalisti e le incursioni rock di band come i Kinks, contribuisce a creare un'atmosfera unica, a metà tra il malinconico e l'inquietante, perfettamente in linea con il tono del film. Con due grandi attori e un intreccio narrativo davvero emozionante, L'Amico Americano non è solo un superbo thriller psicologico, ma una profonda meditazione sull'amicizia, sulla corruzione dell'innocenza e sul fascino perverso del male. Wenders ci offre un capolavoro che trascende il genere, un film che rimane impresso nella memoria per la sua atmosfera unica e per la sua audace rilettura di un archetipo narrativo. Cosa chiedere di più a un film? Assolutamente nulla.
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