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Spettacolo di varietà

1953

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Nel 1953, l'epoca d'oro del musical MGM della Freed Unit era al suo zenit assoluto, ma era uno zenit crepuscolare; la televisione stava già erodendo il pubblico e i gusti stavano cambiando. In questo contesto, Vincente Minnelli, il sommo sacerdote dell'estetica, il demiurgo del Technicolor e della nevrosi applicata alla scenografia, dirige l'opera più metatestuale, auto-ironica e, in fin dei conti, intellettualmente profonda della storia del genere. È un film che usa la trama più vecchia del mondo—"Mettiamo su uno spettacolo!"—per orchestrare un saggio critico su sé stesso, sull'arte, sull'intrattenimento e sulla linea sottile (e forse inesistente) che li divide.

Il film è un atto di coraggio quasi doloroso, un Viale del tramonto con le scarpe da tip tap. L'incipit è brutale nella sua onestà: Tony Hunter (Fred Astaire) non sta interpretando una star del musical su viale del tramonto; è una star del musical sul viale del tramonto. Astaire, l'icona della grazia Art Déco degli anni '30, l'uomo che ha definito l'eleganza maschile per due decenni, è ora un reperto. Arriva alla stazione e nessuno lo riconosce (se non per confonderlo con qualcun altro). I suoi "memorabilia"—il cilindro, il bastone da passeggio—sono all'asta, svenduti. Minnelli e gli sceneggiatori (i leggendari Betty Comden e Adolph Green, che qui interpretano essenzialmente sé stessi attraverso i personaggi di Lester Marton e Lily Marton) prendono l'ansia professionale di Astaire e la trasformano nel motore narrativo. Tony è obsoleto. È un hoofer, un ballerino di fila, in un mondo che ora vuole Marlon Brando e il Metodo.

Il conflitto centrale del film non è romantico, è ermeneutico. È una guerra santa tra "Arte Alta" e "Intrattenimento Basso". Quando Tony accetta di tornare a Broadway, si ritrova intrappolato nel progetto di Jeffrey Cordova (un Jack Buchanan che offre una delle performance comiche più sublimi di sempre). Cordova è un genio, un megalomane, un ibrido mostruoso di Orson Welles, Laurence Olivier e José Ferrer. È l'archetipo del regista auteur che crede che l'intrattenimento sia volgare. Decide così di trasformare la leggera commedia musicale di Tony in una versione moderna, pretenziosa e illeggibile di Faust, completa di fumo, piattaforme girevoli, fuoco infernale e (ovviamente) nessun numero di danza. La sequenza del fallimento di questo spettacolo "impegnato" è la catastrofe più catartica e intellettualmente onesta della storia di MGM. È la vendetta dell'artigianato di Hollywood contro l'intellettualismo sterile. È il film che dice: vendere l'anima al diavolo per l'Arte (quella con la A maiuscola) è stupido; ma vendere l'Arte per l'Intrattenimento (quello con la I maiuscola) è una forma di salvezza.

Quando il Faust fallisce, il film rinasce. Ed è qui che enuncia la sua tesi filosofica, il suo manifesto programmatico, condensato nella canzone "That's Entertainment!". È un numero che andrebbe studiato in ogni corso di semiotica. È un trattato di estetica che, in tre minuti, demolisce la gerarchia culturale. Il testo di Howard Dietz e Arthur Schwartz (ripescato, come quasi tutto lo score, dal loro catalogo d'oro) è di una sfrontatezza geniale: equipara Edipo Re ("dove un tizio uccide suo padre e finisce con sua madre") a un clown che riceve una torta in faccia, equipara un feuilleton strappalacrime a Amleto che fa un monologo. Il punto non è il soggetto, ci dice Minnelli. Il punto è la forma, l'esecuzione, l'impatto. Se funziona, se commuove, se diverte, se trasporta, allora è intrattenimento. E l'intrattenimento non è l'opposto dell'arte: è la sua forma più pura e democratica. Il resto del film è la dimostrazione pratica di questa tesi.

Per dimostrare la tesi, serve la musa. E qui, Spettacolo di Varietà compie il suo secondo miracolo. Dimenticate Ginger Rogers (l'amore è anche per lei, ma è un'altra cosa). Gabrielle Gerard (Cyd Charisse) è una creatura di un altro universo. È l'epitome dell'Arte Alta: una ballerina classica, tecnica, algida, e (come sottolinea la sceneggiatura) "troppo alta" per Tony. Lei è il balletto, lui è il tip tap. Il loro incontro è uno scontro di civiltà artistiche. Ma è nel numero "Dancing in the Dark" che avviene la fusione, la sintesi hegeliana. In un Central Park che è palesemente un soundstage (e per questo ancora più magico, un'utopia metafisica del movimento), Minnelli orchestra il loro incontro. Non è un ballo, è una levitazione. Non è un duetto, è un dialogo. Astaire, l'uomo che ha sempre nascosto lo sforzo, trova in Charisse una partner la cui tecnica è così assoluta da sembrare assenza di peso. È l'unione perfetta tra Broadway e il Bol'šoj, la prova che i due linguaggi possono creare una sintassi nuova e sublime.

Ma l'apoteosi del film, il punto in cui la tesi di "That's Entertainment!" diventa carne e Technicolor, è il balletto finale: "The Girl Hunt Ballet". È il musical noir. È Minnelli che scatena il suo feticismo per il pulp, prendendo i romanzi di Mickey Spillane (l'arte più "bassa", popolare e "volgare" dell'epoca) e trasformandoli in un balletto espressionista. Astaire, con tanto di voce fuori campo da detective hard-boiled ("Era una di quelle notti..."), è perfetto nel ruolo del detective Rod Riley. E Charisse, in un abito di velluto rosso fuoco (il rosso Minnelli!) che squarcia l'inquadratura, è la femme fatale archetipica, divisa in due (la brunetta innocente, la bionda letale). È un capolavoro di scenografia (con scritte pulp che fluttuano nell'aria), colore, coreografia e, soprattutto, intelligenza. È la dimostrazione finale che il "lowbrow" (il pulp) e l' "highbrow" (il balletto) non solo possono coesistere, ma, nelle mani di un genio, possono creare un capolavoro che è più grande e più intelligente della somma delle sue parti.

Spettacolo di varietà è un film crepuscolare, ma di un crepuscolo sfolgorante. È la lettera d'amore più acuta e auto-consapevole che Hollywood abbia mai scritto a sé stessa. È il musical che ha capito che, per sopravvivere nell'era della televisione e del cinismo, non bastava più essere impeccabili; bisognava essere coscienti. Minnelli, Astaire, Comden e Green hanno preso un cadavere (la rivista di Broadway) e lo hanno usato per resuscitare un altro moribondo (la carriera di Astaire), creando nel processo il testamento definitivo sul perché l'arte dell'intrattenimento non è solo necessaria: è sacra. È un film che non invecchia, perché la sua tesi—che uno spettacolo ben fatto è la forma più alta di intelligenza—è eterna.

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