Gli spiriti dell'isola
2022
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Regista
Gli Spiriti dell'Isola di Martin McDonagh è una parabola filosofica mascherata da commedia nera, un'opera che ha la densità di un testo di Samuel Beckett e la bellezza desolata di un dipinto di Andrew Wyeth. È un requiem per la gentilezza in un mondo che ha scelto la disperazione come forma d'arte. La grandezza di McDonagh risiede nella sua verve ironica, una scrittura che crepita come brace sotto la cenere di un mondo grigio e malinconico. Il dialogo è un capolavoro di arguzia contadina e abissi esistenziali. Si ride, e molto, ma è una risata che si strozza in gola. Ridiamo della "noia" di Pádraic, della sua ossessione per il suo asinello, ma McDonagh ci sta chiedendo: è più importante essere un uomo "interessante" o un uomo "gentile"? La risposta non è affatto scontata. L'ironia non è mai fine a se stessa; è il bisturi con cui il regista incide la superficie della normalità per mostrare il vuoto che si cela al di sotto. La battuta più divertente è sempre a un passo dalla tragedia più cupa.
Il film è un duello tra due visioni del mondo, incarnate da due uomini indimenticabili. Pádraic (Colin Farrell): è l'uomo semplice, forse perfino noioso, la cui vita è scandita da piccole routine e affetti sinceri. Rappresenta la decenza, la comunità, la gentilezza come valore fondante. La sua disperazione, quando questo mondo gli viene strappato, è quella di un uomo buono a cui viene detto che la sua bontà non ha valore. Colm (Brendan Gleeson): È l'artista, l'intellettuale, l'uomo che, guardando l'abisso della propria mortalità, decide che l'unica cosa che conta è lasciare un'eredità. La sua crociata contro la noia è una disperata, e a tratti crudele, lotta contro il tempo. Per inseguire la musica immortale, è disposto a mutilare se stesso e la sua umanità.
L'atto di Colm che si taglia le dita con una cesoia da tosatura non è un semplice colpo di scena. È il perno filosofico del film, un gesto di una violenza tanto assurda quanto densa di significato, reso ancora più sconvolgente dal suo contesto quasi agreste. In un ambiente urbano o intellettuale, un atto del genere potrebbe essere interpretato come una performance artistica, per quanto estrema. Ma su Inisherin, un'isola dove le mani servono per pescare, per coltivare, per suonare il violino al pub, e dove lo strumento del supplizio è una cesoia da pecora—un attrezzo di lavoro, grezzo e brutale—la mutilazione assume una concretezza terrificante. Non c'è nulla di astratto. È un gesto che affonda le radici nella terra e nel sangue, un'irruzione del caos primordiale nella monotonia della vita rurale. Questo contrasto tra la quiete pastorale e la violenza autoinflitta ci dice che il deserto dell'anima di Colm è diventato così arido che l'unica cosa che può crescervi è il dolore fisico. Il significato del gesto è un paradosso vertiginoso. Colm afferma di voler troncare l'amicizia con Pádraic per dedicare il tempo che gli resta all'arte, alla composizione, per lasciare un'eredità che lo salvi dalla disperazione del nulla. E per dimostrare la serietà di questa sua vocazione artistica, cosa fa? Distrugge lo strumento stesso della sua arte. Si taglia le dita con cui suona il violino.
In questo atto apparentemente illogico si cela la verità: la disperazione di Colm non è una mera ambizione artistica, è un abisso esistenziale così profondo che persino l'arte stessa diventa secondaria. Il gesto diventa più importante della musica. La mutilazione è la sua vera, ultima composizione: un'opera d'arte grottesca e disperata, scolpita nella propria carne. È il suo modo di urlare al mondo—e soprattutto a Pádraic—un dolore che non riesce più a contenere o ad articolare a parole. È la trasformazione del tormento interiore in una ferita visibile, innegabile. E tutto ciò avviene come elemento interposto sul piano dello scontro tra i due uomini, quasi a suggellare la mostruosa divaricazione tra i due mondi contrapposti.
Questo scontro non è tra un "buono" e un "cattivo", ma tra due bisogni umani fondamentali e, in questo caso, inconciliabili: il bisogno di connessione e il bisogno di significato. L'isola di Inisherin, con la sua bellezza struggente e monotona, non è solo uno sfondo. È il terzo protagonista, una terra desolata dell'anima che fa da eco al poemetto di T.S. Eliot. Mentre sulla terraferma infuria una guerra civile insensata (sentita solo attraverso i lontani boati), sull'isola va in scena una guerra civile altrettanto assurda tra due uomini. È un mondo dove la comunicazione si è interrotta, dove i vecchi legami si spezzano senza una ragione apparente e dove i personaggi, come la profetessa Mrs. McCormick, sono figure spettrali che annunciano una morte imminente. Il paesaggio è un deserto spirituale in cui l'uomo si interroga sulla propria esistenza, trovando solo il silenzio del mare e il vento.
Eppure, ed è questa la genialità suprema del film, Gli Spiriti dell'Isola è, paradossalmente, un film sul potere incancellabile dell'amicizia. La violenza e l'assurdità delle azioni di Colm sono la misura esatta della profondità del legame che vuole recidere. Non si compiono gesti così estremi per qualcosa a cui non si tiene. Il sacro fuoco di quell'amicizia, anche nel suo atto di spegnersi, sprigiona un calore accecante e distruttivo. Nel finale, quando i due uomini si trovano sulla spiaggia, nemici ma legati per sempre da ciò che hanno condiviso e distrutto, capiamo che quel legame non è finito. Si è semplicemente trasformato in una cicatrice, un dolore condiviso che, a suo modo, è ancora una forma di connessione. Nonostante tutto, in quel deserto, qualcosa palpita ancora.
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