Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Il Volo

1986

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Il Volo è il secondo pannello della "Trilogia del Silenzio" (incastonato tra Viaggio a Citera e Paesaggio nella nebbia) ed è forse l'opera più claustrofobica del maestro greco, un Kammerspiel invernale mascherato da road movie che si muove alla velocità tetanica di un ghiacciaio. È un film che aggredisce lo spettatore non con l'azione, ma con la sua assenza; non con il dialogo, ma con il peso schiacciante della sua stasi. È il 1986, ma questo non è il mondo dell'eccesso reaganiano. È un non-luogo grigio, bagnato, un purgatorio post-storico dove l'unica cosa che si muove è la pioggia, e l'unica cosa che si sente è il ronzio del passato.

Il colpo di genio assoluto, l'atto di decostruzione meta-testuale che eleva il film a capolavoro, è l'aver scelto Marcello Mastroianni. Angelopoulos prende l'icona della vitalità europea, il simbolo della coolness mediterranea, l'alter ego di Fellini, l'uomo de La Dolce Vita e , e lo svuota. Lo disidrata di ogni traccia di carisma. Il suo Spiros non è un personaggio; è un guscio, un involucro che si muove per inerzia. Il suo silenzio non è quello stoico di un eroe western; è il silenzio dell'esaurimento ontologico. Vedere Mastroianni, il cui volto era una mappa del desiderio, ridotto a questa maschera di stanchezza cosmica è un atto di violenza cinematografica. Angelopoulos disseziona Mastroianni, gli toglie la "vita" cinematografica per mostrarci l'uomo che rimane quando le luci della ribalta si spengono e rimane solo il grigiore della provincia. È un'autopsia del maschio europeo del dopoguerra, e il verdetto è: morte per consunzione.

La struttura è quella di un'anti-Odissea. Il film si apre con un rituale (il matrimonio della figlia), l'ultimo atto di una vita borghese che Spiros ha sopportato. E poi, la fuga. Ma non è una fuga verso qualcosa. È una regressione. Spiros, l'apicoltore (il Melissokomos), carica le arnie sul suo camion e inizia il suo viaggio annuale, seguendo la fioritura dal Nord al Sud della Grecia. Ma questo non è un viaggio di rinascita; è un rito funebre. Sta letteralmente portando la sua storia, la sua eredità (le api), verso la morte. La Grecia di Angelopoulos non è quella delle cartoline turistiche, non è il blu dell'Egeo. È la Grecia dell'Epiro invernale, delle città industriali anonime, delle autostrade bagnate, del fango. I famosi, inesorabili piani sequenza del regista (coreografati dal divino Yorgos Arvanitis) non catturano la bellezza; catturano la durata della disperazione. La sua macchina da presa non si muove, attende. Aspetta che il vuoto si manifesti.

Lungo la strada, Spiros cerca connessioni, ma il suo mondo è morto. La sua non è solo una crisi personale; è il fallimento di una generazione. Visita i suoi vecchi compagni della resistenza comunista (tra cui un cameo straziante di Serge Reggiani), solo per trovare fantasmi. L'ideologia che li teneva insieme si è dissolta. L'utopia politica è fallita, lasciando solo vecchi uomini malati in caffè deserti. Il polemos (la guerra) è finito, e il pathos (la sofferenza) è tutto ciò che rimane. È in questo contesto che avviene l'incontro con La Ragazza (Nadia Mourouzi). Lei è l'esatto opposto: è il presente. È rumore (la sua musica rock), è movimento caotico, è desiderio superficiale. È la modernità senza storia che invade il camion-santuario di Spiros. Angelopoulos nega brutalmente qualsiasi cliché à la Lolita. Non c'è redenzione attraverso la giovinezza. La loro interazione è uno scontro tra due silenzi: il suo, pesante come il piombo; il suo, vuoto come l'etere. Il loro tentativo di connessione fisica è uno dei momenti più desolati della storia del cinema: non è erotismo, è entropia; è il tentativo fallito di due solitudini di generare calore, finendo per produrre solo altro gelo.

Se Tarkovskij usa gli elementi (acqua, fuoco) per suggerire una metafisica spirituale, Angelopoulos li usa per mostrare il collasso materiale. La pioggia incessante non purifica; erode. E poi c'è il suono. Il ronzio delle api. È l'unico filo che lega Spiros al mondo, il suono del suo passato, della tradizione, della natura. Ma nel finale, anche questo legame si spezza. Spiros non si suicida; si dissolve. In un ultimo atto di disperazione che è anche una liberazione, distrugge le sue arnie. Sta distruggendo la sua storia, il suo fardello. E le api, la sua eredità, lo avvolgono. Non lo uccidono; lo riassorbono. L'ultimo suono che sentiamo è il ronzio che diventa assordante, il suono della natura/storia che infine sovrasta il silenzio dell'uomo. Il Volo è un'opera spietata, un poema visivo sul tempo che si ferma, sull'impossibilità di sfuggire alla propria storia e sulla terrificante bellezza del vuoto. È Angelopoulos al suo zenit più oscuro.

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