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The Blues Brothers

1980

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John Landis, con il suo inconfondibile tocco dissacrante e la sua predilezione per l'anarchia controllata, gira questo scanzonato e inimitabile film nel 1980, un'opera che trascende la semplice commedia per farsi vero e proprio inno alla musica e alla libertà. Avvalendosi del talento comico debordante di John Belushi e della geniale e misurata follia di Dan Aykroyd – duo già iconico dal Saturday Night Live, da cui i personaggi di Elwood e Joliet Jake Blues avevano preso forma e vigore – Landis scolpisce un'epopea urbana senza precedenti. I due fratelli, scalcinati, sboccati e irriverenti, emergono dalla melma della prigionia e dell'esistenza precaria, assurgendo al ruolo di quasi-santoni, custodi di una "missione per conto di Dio". Non si tratta di un banale precetto clericale, bensì di un'illuminazione divina, un imperativo categorico ricevuto direttamente da un reverendo dal volto di James Brown, che li spinge a salvare un orfanotrofio del loro quartiere dalla bancarotta. Una Crociata del Soul, potremmo definirla, dove la fede è riposta non nel dogma, ma nel ritmo, nell'armonia e nella potenza redentrice del blues.

Con l'urgenza di chi è investito da un sacro compito, decidono di riformare la leggendaria Blues Band. La loro strategia è quella di reclutare la vecchia guardia, gli ex membri sparsi per Chicago e oltre, irretendoli con mirabolanti promesse di ingaggi inesistenti, ma soprattutto con il magnetismo innegabile di una causa più grande di loro. È in questo pellegrinaggio metropolitano che il film si trasforma in un vero e proprio pantheon sonoro, un tributo vivente alla storia della musica afroamericana.

Sulla loro strada, che è al contempo un palcoscenico itinerante, transitano e performano nomi del calibro di Aretha Franklin, con la sua ineguagliabile interpretazione di 'Think' in un ristorante fatiscente; Ray Charles, che trasforma un negozio di strumenti musicali in un tempio gospel con 'Shake a Tail Feather'; il leggendario Cab Calloway, che, con l'eleganza di un'altra era, riporta in vita 'Minnie the Moocher', e l'ecumenico James Brown, predicatore e performer, la cui 'Old Landmark' è un'esplosione di spiritualità e funk. Queste non sono semplici guest star o cameo musicali; sono veri e propri numeri di spettacolo, inseriti nella narrazione con una fluidità tale da diventare essi stessi punti nodali della trama. Il film agisce come un veicolo culturale essenziale, riportando questi giganti della musica a un pubblico più giovane, onorandone il lascito e dimostrando la loro eterna vitalità.

E mentre la musica è il loro credo, il caos è il loro linguaggio. Il viaggio dei Blues Brothers è costellato di una sequela di eventi apocalittici che sfidano ogni logica fisica, trasformando il paesaggio urbano di Chicago in un parco giochi per un'anarchia calcolata. Tra colossali inseguimenti che mettono in scena la distruzione di centinaia di veicoli – un vero e proprio balletto cinetico che evoca tanto le slapstick delle origini quanto le coreografie automobilistiche dei cartoni animati di Chuck Jones, in un tripudio di lamiera e fumo che costò alla produzione cifre da capogiro – ballate blues che scuotono l'anima, l'intervento inaspettato di missili terra aria, lanciafiamme artigianali, cabine telefoniche che saltano in aria in una parata di effetti speciali pratici sorprendenti, e interi centri commerciali devastati dalla mitica Blues Mobile, la loro inarrestabile cavalcatura, il film dispiega una comicità iperbolica che non ha paura di osare. Persino un improbabile plotone di nazisti dell'Illinois, figure grottesche e assurde che fungono da antagonisti tanto ridicoli quanto tenaci, si unisce alla caccia, rappresentando l'ennesimo ostacolo surreale in un percorso già oltre ogni immaginazione. I due fratelli Blues, Elwood e Joliet Jake, con la loro impassibile determinazione dietro gli occhiali scuri, dovranno sfuggire a tutte queste forze scatenate per raggiungere la meta finale prima della scadenza prestabilita: l’ufficio delle tasse della Contea, l'altare burocratico dove depositare il pagamento che salverà l’istituto nel quale sono cresciuti, la loro unica vera casa.

Quest'opera monumentale è nata evidentemente con l’intento primario di omaggiare e, in un certo senso, eternare la musica nera americana, un intento nobilitato da una colonna sonora non solo esplosiva, ma intrinsecamente narrativa. Non poteva essere altrimenti, dato il pedigree musicale del progetto. La musica non è un semplice accompagnamento, ma il cuore pulsante e la forza propulsiva dell'intero film, una vera e propria sceneggiatura uditiva che guida e commenta ogni azione. Allo stesso modo, la sceneggiatura pirotecnica, scritta a quattro mani da Landis e Aykroyd con una verve che alterna il nonsense più sfrenato a momenti di acuta osservazione sociale, è un meccanismo perfetto di cause ed effetti, o meglio, di reazioni a catena. Ogni trovata è fatalmente concatenata alla successiva, in un crescendo inarrestabile di assurdità e genio comico, così come ogni brano musicale si incastona nella trama, talvolta bloccandola per un momento di pura estasi performativa, talvolta accelerandone il ritmo. La narrazione risulta dannatamente efficace proprio in virtù di questa implacabile progressione, non concedendo tregua allo spettatore e trascinandolo in un turbine di eventi tanto imprevedibili quanto inevitabili.

Il film è un vero e proprio campionario di scene memorabili, ciascuna degna di analisi e applauso, e scegliere una preferita è un'impresa ardua, quasi ingiusta. Eppure, se dovessimo proprio azzardare una selezione, l'istante in cui Jake si toglie gli occhiali scuri e, con il suo sguardo magnetico e quasi malinconico, irretisce per un unico, fatale attimo un'agguerritissima ex fidanzata armata di mitra (l'indimenticabile Carrie Fisher, in un ruolo che è puro divertimento caustico), rimane scolpito nella memoria. È un momento di rara vulnerabilità per il personaggio altrimenti inamovibile di Jake, un barlume dell'uomo sotto l'icona, una pausa surreale nella furia cieca che lo insegue. La Fisher, qui, è una figura di vendetta comica quasi mitologica, una Erinni in minigonna, la cui determinazione vendicativa è tanto spaventosa quanto esilarante.

Oltre ai già citati giganti della musica, la galleria di cameo è un vero e proprio tesoro nascosto, un who's who della cultura pop e della musica dell'epoca. Tantissimi i volti noti, ciascuno con una presenza fugace ma incisiva: John Candy, nel ruolo dell'affabile ma sfortunato investigatore che segue le loro tracce con una dedizione quasi commovente; Steven Spielberg, in una breve ma iconica apparizione come impiegato delle tasse, simbolo della burocrazia implacabile che i fratelli devono placare; e l'autentico, inconfondibile John Lee Hooker, che regala al film un'immersione ancora più profonda nelle radici del blues, suonando in una strada di Chicago. Ogni cameo non è un mero esercizio di stile, ma un tassello che arricchisce il mosaico di questo universo incredibilmente denso, conferendogli ulteriore autenticità e fascino.

Landis, con la sua visione audace e la sua direzione impeccabile, ha il merito di aver plasmato non solo un film, ma un'icona culturale duratura: gli uomini in nero, con i loro abiti scuri, i cappelli Fedora e gli occhiali da sole che celano ogni emozione, se non una perenne, ironica imperturbabilità. S'imprimeranno nella fantasia di ognuno di noi con le loro squinternate manie, il loro irriverente modo di fare e quella loro missione impossibile che, alla fine, si rivela la più sacra delle imprese. I Blues Brothers sono molto più di due comici; sono archetipi del ribelle con una causa, del perdente vincente, della forza indomabile della musica e dello spirito umano che rifiuta di piegarsi alle convenzioni. Rimangono un faro di genio comico e un monumento sonoro, un'opera che, a distanza di decenni, continua a 'shaking its tail feather' con immutata energia.

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