The Brutalist
2024
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Regista
Un monolite. Se si dovesse distillare in una singola parola l'essenza di "The Brutalist" di Brady Corbet, sarebbe questa. Un monolite di cinema puro, imponente e spigoloso, girato in un 70mm bianco e nero che non accarezza le forme ma le scolpisce, le incide con la precisione di uno scalpello su pietra. È un'opera che non chiede di essere amata, ma esige di essere contemplata, circumnavigata, quasi studiata nella sua austera e dolente grandiosità. Come le cattedrali di cemento armato che il suo protagonista sogna di erigere, il film stesso è un'architettura dell'anima, un edificio filmico in cui ogni inquadratura è un contrafforte, ogni silenzio una campata che sorregge il peso schiacciante della memoria.
La vicenda di László Toth, interpretato da un Adrien Brody scavato, quasi trasfigurato, è la cronaca di una ricostruzione. Sopravvissuto agli orrori indicibili dell'Europa in fiamme, architetto ungherese di genio la cui visione modernista è stata soffocata dalla barbarie, Toth sbarca nell'America del secondo dopoguerra con la moglie Erzsébet (una dolente e lucidissima Felicity Jones). Non cerca solo rifugio; cerca uno spazio, una tabula rasa su cui proiettare l'ordine, la razionalità e la permanenza che la storia gli ha negato. L'America, con la sua promessa di futuro illimitato, sembra la tela perfetta per il suo sogno di un'utopia costruita. Ma Corbet, cineasta intellettuale e spietato, non è interessato all'agiografia dell'American Dream. Il suo sguardo è quello di un sismografo che registra le scosse carsiche che minano le fondamenta di quell'edificio mitologico.
Il parallelismo più immediato, quasi un'esca per il critico pigro, sarebbe con Howard Roark de "La fonte meravigliosa" di Ayn Rand. Entrambi architetti, entrambi visionari intransigenti. Ma sarebbe un'analogia fallace, un'eresia critica. Roark è un'astrazione filosofica, un'ipertrofia dell'ego nietzschiano che piega il mondo alla sua volontà. Toth, al contrario, è un uomo spezzato la cui volontà è una cicatrice. La sua ambizione non è una pulsione di vita, ma una reazione al trauma, un tentativo disperato di imporre una forma monumentale e indistruttibile al caos informe del suo passato. Le sue architetture non sono inni all'individuo, ma mausolei alla memoria, fortezze contro l'oblio. Se Roark costruisce per affermare il sé, Toth costruisce per seppellire un sé che non esiste più.
Quando il mefistofelico e facoltoso cliente Harrison Van Buren (un Guy Pearce mellifluo e impenetrabile) gli offre la commissione della vita, il patto faustiano è servito. Van Buren non compra solo un progetto; compra l'anima del suo architetto, la sua ossessione, il suo dolore. Lo scontro tra i due non è solo tra artista e mecenate, ma tra due diverse concezioni del potere: il potere di creare dal nulla e il potere di possedere ciò che è stato creato. In questa dinamica, il film si allontana dal romanzo di formazione per diventare una tragedia greca in giacca e cravatta, un'esplorazione della hybris e della sua inevitabile nemesi.
Corbet orchestra questa discesa con una padronanza formale che lascia attoniti. La scelta del bianco e nero non è un vezzo estetico, ma una dichiarazione di intenti. È il linguaggio della memoria fotografica, del documento storico, ma anche del cinema espressionista tedesco, con i suoi contrasti violenti che traducono in immagine il conflitto interiore. Le composizioni, rigorose e spesso simmetriche, imprigionano i personaggi all'interno di geometrie opprimenti, trasformando gli spazi in estensioni della loro condizione psicologica. Si avverte l'eco di un Kubrick nella gestione glaciale dello spazio e del tempo, ma con un calore umano, per quanto flebile, che al maestro di "2001" era spesso estraneo.
Il titolo stesso è una chiave di volta. Il Brutalismo, da béton brut (cemento grezzo), non è un'estetica della brutalità, ma dell'onestà materica. Lasciare il cemento a vista, con le impronte delle casseforme, significa esporre il processo costruttivo, la "verità" strutturale dell'edificio. Allo stesso modo, il film di Corbet espone le cicatrici del suo protagonista. La sua psiche è un'opera brutalista: dura, spoglia, segnata dalle violenze della sua "costruzione", eppure dotata di una sua solenne, terribile bellezza. In questo, il film trova un inaspettato compagno di viaggio non tanto nel cinema, quanto nella letteratura di W.G. Sebald. Come in "Austerlitz", anche qui architettura e memoria si fondono in un'unica, dolorosa archeologia dell'anima, dove ogni edificio è un deposito di storie non raccontate e fantasmi non placati.
La partitura di Scott Walker, l'ultima del grande e compianto musicista, è il controcanto sonoro perfetto a questa visione. Non è una colonna sonora, ma un'entità sismica, una serie di paesaggi sonori atonali e operatici che non sottolineano l'emozione, ma la creano dal profondo, come un lamento che emerge dalle fondamenta stesse delle immagini. È il respiro roco di un mondo che ha perso la sua armonia.
"The Brutalist" è un'opera esigente, che rifugge ogni facile catarsi. Non offre risposte, ma solleva interrogativi pesanti come blocchi di granito. Può l'arte redimere? O è solo un modo più sofisticato per monumentalizzare il proprio dolore? La costruzione di un nuovo mondo richiede inevitabilmente la distruzione di quello interiore? Il film non giudica il suo protagonista, ma lo sottopone a una dissezione autoptica, mostrando come il sogno di un'utopia possa trasformarsi in una prigione personale, un capolavoro architettonico edificato sulle rovine di una vita.
In un panorama cinematografico dominato dalla levigatezza digitale e dalla narrazione consolatoria, "The Brutalist" si erge con la forza di un'anomalia, un'opera d'altri tempi proiettata nel nostro presente con la violenza di un monito. È un film che rimane addosso, che continua a lavorare sottopelle, costringendoci a interrogarci sul prezzo della creazione e sulla natura indelebile delle fondamenta, visibili e invisibili, su cui costruiamo le nostre esistenze. Un capolavoro austero, necessario, indimenticabile. Un vero e proprio monolite nella storia del cinema contemporaneo.
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