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Il Cameraman

1928

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Un grande artista impresse alla fine degli anni '20 una svolta nella gestione della mimica corporea nel cinema muto, facendo del proprio corpo un incredibile veicolo espressivo dove dinamismo, motorietà, senso dello spazio e gestualità contribuirono alla creazione di un archetipo imprescindibile di comicità, frutto di un talento ineguagliabile. Quell’uomo, naturalmente, è Buster Keaton e tutti conosciamo e amiamo i suoi film, le sue irresistibili gag, ma anche il suo estro nel costruire personaggi con pochi semplici movimenti del corpo. Il suo celebre soprannome, “The Great Stone Face”, non era solo un vezzo, ma la chiave di volta della sua rivoluzionaria comicità: la sua inalterabile espressione, quasi meccanica, fungeva da tela bianca su cui si proiettava il caos del mondo, amplificando l'assurdità delle situazioni e la vulnerabilità intrinseca dell'uomo comune. Laddove Chaplin esprimeva la commozione con un tremolio del labbro o Lloyd l'aspirazione con un sorriso sornione, Keaton affidava all'inespressività la forza di un uragano, trasformando l'imperturbabilità in un veicolo di riso e, spesso, di toccante malinconia. La sua precisione quasi ingegneristica nella costruzione delle gag, frutto di un'innata comprensione della fisica e del movimento, elevò la comicità fisica a una forma d'arte quasi balletica, distaccata e sublime.

Questa opera non fa eccezione e segna il debutto (anche se non accreditato) di Keaton alla regia per la Metro-Goldwyn-Mayer. Keaton, con la sua inimitabile mimica facciale e la sua straordinaria padronanza del corpo, trasforma ogni situazione in una gag irresistibile. Dagli inseguimenti acrobatici alle interazioni con la scimmietta Josephine, ogni scena è un piccolo capolavoro di comicità fisica e di timing perfetto. Ma Il Cameraman non è solo un susseguirsi di gag esilaranti. Keaton, con grande sensibilità, inserisce nella narrazione elementi di malinconia e poesia, creando un personaggio fragile e tenero, che suscita nel pubblico empatia e commozione. Il Cameraman è il primo film che Keaton realizza per la Metro-Goldwyn-Mayer, dopo aver lasciato la United Artists. Questo passaggio segna un momento importante nella sua carriera, ma anche l'inizio di un periodo di difficoltà creative, dovute alle ingerenze della produzione nel suo lavoro. Non fu solo un cambio di studio, ma un vero e proprio scontro tra la visione autoriale di Keaton, abituato a un controllo quasi totale sui suoi lavori, e il nascente sistema di produzione hollywoodiano delle grandi major, che prediligeva la standardizzazione e l'intervento costante dei produttori. Il film stesso, incentrato sulla figura di un outsider che cerca di farsi strada nell'industria cinematografica, assume una risonanza meta-narrativa sorprendente, quasi profetica delle battaglie artistiche che Keaton avrebbe dovuto affrontare negli anni a venire.

La storia è quella di un uomo che, innamoratosi di una dipendente della MGM, fa di tutto per entrare nel mondo del cinema barattando la sua macchina da scrivere per una cinepresa. Dopo un’esilarante sarabanda di fallimenti, l’uomo riuscirà a sfondare con l’ausilio di una scimmietta. La macchina da presa, inizialmente un peso ingombrante e causa di rovinosi insuccessi, diventa progressivamente una sorta di estensione del protagonista, un occhio attraverso cui percepire e interagire con il mondo. Questo scambio di strumenti da scrittura a ripresa non è casuale: è la transizione dall'aspirazione narrativa alla pura osservazione, un gesto simbolico che incapsula la sua devozione al medium filmico.

Un’opera brillante che dimostra (laddove ce ne fosse bisogno) come ad un grande comico bastino davvero pochi miseri espedienti per incendiare di sorrisi la sua platea. La sua comicità, basata sul linguaggio universale del corpo e sull'osservazione dei comportamenti umani, trascende le barriere del tempo e delle culture. Keaton, con la sua genialità e la sua umanità, ha creato un'opera che celebra la forza dell'amore, la tenacia nel perseguire i propri sogni e la poesia che si nasconde nella vita di tutti i giorni. Keaton sperimenta nuove tecniche cinematografiche, utilizzando la cinepresa in modo creativo e dinamico. Ne sono un esempio le inquadrature soggettive che mostrano il punto di vista del regista, o le scene girate con la camera a mano che conferiscono al film un senso di immediatezza e realismo. In alcune scene, la camera a mano viene utilizzata per mostrare il punto di vista di Buster Keaton, come se fosse lui stesso a riprendere l'azione, una tecnica innovativa per l'epoca che anticipava di decenni l'estetica del cinema verità e le sperimentazioni della Nouvelle Vague. Questo espediente narrativo permette allo spettatore di identificarsi con il personaggio, di vedere il mondo attraverso i suoi occhi e di condividere le sue emozioni. È un'immersione nell'ingenuità e nella perseveranza del protagonista, resa palpabile da scelte stilistiche audaci. Attraverso la camera a mano, Keaton riesce a catturare la bellezza e la poesia che si nascondono nella vita di tutti i giorni. Le scene girate per le strade di New York, con la gente che va e viene, le automobili che sfrecciano, i rumori della città, acquisiscono un fascino particolare, grazie alla spontaneità e al realismo delle immagini, trasformando la metropoli in un coprotagonista dinamico, quasi un organismo vivente che inghiotte e poi eleva il piccolo, stoico cameraman. La scimmietta Josephine, infine, trascende il ruolo di semplice spalla comica per diventare un catalizzatore di eventi, un simbolo di quella fortuna inattesa o di quell'istinto primordiale che a volte serve per superare le sfide, una sorta di musa anarchica che porta al successo dove la logica e la tenacia da sole falliscono. Il Cameraman rimane una testimonianza malinconica e gloriosa della genialità di Keaton, un'ultima, fulgida fiammata di autonomia creativa prima che le luci della ribalta delle grandi produzioni iniziassero, troppo presto, a spegnersi sulla sua unicità.

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