
Il Colore del Melograno
1969
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Regista
Tentare di recensire Il Colore del Melograno (1969) di Sergei Parajanov usando gli strumenti della critica cinematografica tradizionale è un'impresa vana, come voler misurare un sogno con un righello. Quest'opera non si analizza, si esperisce. Non si segue, ci si abbandona ad essa. È un poema visivo, un'iconostasi in movimento, un rituale filmico che abolisce la tirannia della prosa narrativa per parlarci in un linguaggio perduto, fatto di simboli, colori e silenzi. È uno di quei rari capolavori che non si limitano a raccontare una storia, ma reinventano il cinema stesso, costringendoci a imparare di nuovo a guardare.
Il film si prefigge di raccontare la vita del poeta armeno del XVIII secolo, Sayat-Nova, ma lo fa con un'onestà e una radicalità disarmanti. Parajanov non ha alcun interesse a costruire una biografia convenzionale, un biopic con un inizio, uno svolgimento e una fine. Il suo scopo, dichiarato e magnificamente raggiunto, è quello di evocare l'universo interiore del poeta, di tradurre l'essenza della sua arte e della sua anima in una sequenza di visioni. Assistiamo a quadri che rappresentano la sua infanzia, il suo primo amore, il suo ritiro in un monastero e la sua morte, ma questi non sono eventi, sono allegorie. Sono le stazioni di un viaggio spirituale dove ogni oggetto è un geroglifico, ogni gesto una liturgia. La vita di Sayat-Nova, dall'infanzia alla morte, il suo viaggio spirituale, le imprese artistiche e i conflitti interiori, vengono dunque filtrati attraverso il prisma della sua stessa sensibilità poetica, nel contesto culturale e storico di un'Armenia che vive come un'entità mistica, più che geografica. Non è un caso che un altro genio visionario come Mikhail Vartanov lo salutò immediatamente come un'opera rivoluzionaria: in un'Unione Sovietica che imponeva il "realismo socialista" come unica dottrina artistica, un film così sfacciatamente formalista, simbolico e radicato in una cultura nazionale e religiosa specifica era un atto di pura e coraggiosa dissidenza.
L'impalcatura estetica del film è il suo più grande trionfo, un linguaggio visivo che attinge a piene mani dalla tradizione iconografica russa e armena, ma la contamina con suggestioni che attraversano tutta la storia dell'arte. La composizione è quasi sempre frontale, la prospettiva è appiattita, i personaggi si muovono con una lentezza rituale all'interno di un quadro statico. È come se Parajanov avesse preso le antiche icone ortodosse e i manoscritti miniati armeni e avesse infuso in essi un respiro di vita. I suoi personaggi non sono figure psicologiche, sono archetipi ieratici, i cui volti impassibili si offrono allo sguardo dello spettatore come quelli dei santi. La scelta di far interpretare più ruoli—il poeta giovane, la sua musa, la suora—alla stessa attrice, la magnifica Sofiko Chiaureli, non è un vezzo, ma una profonda intuizione poetica: l'amore, l'arte e la fede sono volti diversi della stessa anima. Sebbene il cuore visivo sia orientale, le analogie con le correnti pittoriche europee sono sorprendenti. La teatralità e la densità simbolica di certi quadri viventi ricordano la pittura surrealista, in particolare le atmosfere metafisiche di De Chirico, dove oggetti comuni vengono decontestualizzati per caricarsi di un significato nuovo e misterioso. Un libro da cui sanguina il succo di un melograno, un pesce che palpita sulle pagine, sono immagini che parlano direttamente all'inconscio.
Questa ontologia fondata sull'immagine pura crea un ponte inaspettato con altre opere visionarie. L'analogia più calzante, sebbene cronologicamente inversa, è con The Fall di Tarsem Singh. Entrambi i film ripudiano il naturalismo per costruire mondi governati da una logica puramente estetica, dove ogni inquadratura è un'opera d'arte autonoma e la narrazione procede per associazioni cromatiche e simboliche. Tuttavia, se The Fall è un'esplosione barocca, romantica e narrativa, radicata nella fantasia di un singolo cantastorie, Il Colore del Melograno è più austero, più ermetico, un rituale che attinge non alla fantasia individuale ma all'inconscio collettivo di un'intera cultura. È più vicino, nello spirito, al cinema di Andrei Tarkovsky (che infatti ammirava e difese strenuamente Parajanov), per la sua capacità di caricare gli elementi naturali—l'acqua, il fuoco, la terra—di un peso spirituale quasi insopportabile. Il film non racconta Sayat-Nova, è Sayat-Nova. È un'opera che non chiede di essere capita, ma di essere contemplata, come si contempla un'icona antica, lasciando che i suoi colori, le sue forme e il suo silenzio risuonino dentro di noi, svelando verità che nessuna parola potrebbe mai esprimere.
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