The Departed
2006
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Regista
Martin Scorsese ha ancora il tocco magico dei tempi di Raging Bull e Taxi Driver e lo dimostra con un film sontuoso. Un'opera che non è solo un semplice ritorno al genere che lo ha reso celebre, ma una vertiginosa immersione nelle pulsazioni più oscure dell'animo umano, orchestrata con la maestria viscerale che da sempre contraddistingue il suo cinema. La sontuosità non risiede solo nella ricchezza della messa in scena o nell'ampiezza di un cast stellare, ma nella densità emotiva e nella complessità morale che permeano ogni inquadratura. Scorsese, qui, recupera il nervosismo febbrile dei suoi capolavori degli anni '70, innestandovi una maturità narrativa e una consapevolezza estetica che rendono The Departed un crogiolo esplosivo di violenza, paranoia e disillusione, dipinto con pennellate spesse di realismo crudo e lirismo tragico.
Il merito è anche da ascriversi al grande lavoro in sede di sceneggiatura di William Monahan che ha trasposto in canone occidentale, per così dire, un film del 2002 di Wai-Keung Lau intitolato Infernal Affairs, ambientato ad Hong Kong. L'operazione di Monahan non si limita a una mera traslitterazione geografica; è una vera e propria ri-contestualizzazione culturale, che innesta l'architettura narrativa del thriller asiatico nel terreno fertile e brulicante della Boston irlandese-americana. Se l'originale hongkonghese esplorava la fluidità dell'identità in un contesto di rapidi cambiamenti sociali e urbanistici, la versione scorsesiana si cala nelle radici più profonde di una città stratificata, dove la lealtà etnica e la corruzione istituzionale formano un intreccio inestricabile. Monahan ha saputo infondere nel testo un gergo autentico, una brutalità verbale e un cinismo di strada che risuonano perfettamente con l'immaginario scorsesiano, trasformando una storia universale di doppi giochi in un dramma profondamente radicato in un microcosmo specifico, quello del New England criminale e delle sue forze dell'ordine perennemente sull'orlo del baratro morale.
La storia è quella di due poliziotti con opposti destini. Uno è Colin Sullivan, brillante recluta che fa una rapida carriera all’interno del dipartimento di polizia di Boston, ma è corrotto e fa segretamente da delatore al boss mafioso Frank Costello. L’altro è Billy Costigan, irlandese proveniente dai bassifondi, infiltrato in un’operazione segreta nella banda di Costello. I due incroceranno destini e vite in un crescendo mozzafiato di avvenimenti fino alla resa dei conti finale, un'inesorabile discesa agli inferi scandita da una tensione palpabile che non concede tregua allo spettatore.
Un immenso Nicholson nella parte di Costello, è già divenuta un’icona la scena in cui appare a Costigan completamente imbrattato di sangue e gli parla con sottigliezza demoniaca. La sua performance non è una semplice interpretazione, ma una vera e propria esplosione di anarchia primordiale, un'incarnazione del male più viscerale e seducente. Costello è un mostro mitologico, un tiranno shakesperiano che manipola con il sadismo di un demiurgo e la saggezza distorta di un profeta nichilista. Nicholson, con la sua inconfondibile risata sardonica e i suoi sguardi penetranti, si appropria del personaggio con una libertà quasi improvvisata, regalando momenti di terrore puro e grottesca ilarità. La scena menzionata, in cui il suo volto macchiato di sangue assume i contorni di una maschera rituale, è un vertice della sua arte: non è solo un'immagine potente, ma il manifesto visivo della contaminazione, della violenza che si insinua sotto la pelle e corrode ogni parvenza di normalità. È la quintessenza del caos, la personificazione di un sistema marcio che non ammette vie di fuga.
Brillante l’inquadramento psicologico dei due protagonisti, un dualismo che è il fulcro narrativo del film. Da un lato il subdolo Sullivan dall’altro il nervoso Costigan, l’unione e la distinzione delle due identità è una chiave di lettura suggestiva. Leonardo DiCaprio e Matt Damon danno corpo a questa scissione con intensità rara. Costigan, interpretato da DiCaprio con una fisicità vibrante e una nevrosi quasi palpabile, è l'uomo costretto a perdere se stesso per un bene superiore, o forse per un'illusione di giustizia, scivolando in un abisso di paranoia dove la realtà e la finzione si confondono. Sullivan, cui Damon presta un'ambiguità inquietante, è l'archetipo dell'uomo che ascende grazie alla dissimulazione, un camaleonte sociale la cui vera identità è un vuoto morale. Il film esplora con chirurgica precisione il logorio psicologico di chi vive una doppia vita, il terrore costante della scoperta, la perdita progressiva della propria essenza. Non è solo un gioco di spie e infiltrati, ma un'indagine sulla natura dell'identità stessa: si è ciò che si finge di essere? O si è destinati a essere consumati dal ruolo che si interpreta? Il film suggerisce un'ineluttabile fatalità in questo gioco al massacro, dove il 'ratto' metaforico è sia il traditore che la vittima predestinata, e la linea tra giustizia e criminalità si dissolve in un mare di compromessi.
Paradigmatica in questo senso la scena in cui Sullivan cancella l’identità di Costigan dal database rimuovendo di fatto la sua persona dal piano del Reale. Un atto non solo burocratico, ma quasi metafisico, un'epurazione simbolica che annulla l'esistenza stessa di Costigan, condannandolo a una non-vita fatta di fantasmi e segreti. Questa scena condensa il tema centrale del film: la fragilità dell'identità, la sua dipendenza da registri formali e il suo potenziale annullamento in un mondo dove la verità è un bene negoziabile. Il film è una riflessione cupa sulla corruzione endemica che non risparmia alcuna istituzione, sulla violenza come lingua franca e sulla disillusione che attende chiunque provi a distinguersi in un sistema marcio. L'atmosfera è tesa, claustrofobica, enfatizzata dal montaggio serrato di Thelma Schoonmaker, collaboratrice storica di Scorsese, e da una colonna sonora che, tra rock classico e sonorità irlandesi, amplifica la sensazione di un dramma urbano ineluttabile. Persino la città di Boston diventa un personaggio, un labirinto di vicoli e quartieri che intrappolano i personaggi nella loro stessa sorte, un ambiente in cui il sangue versato non si asciuga mai completamente.
Un’opera che riscrive i canoni del “mafia movie”, un capolavoro annunciato che non ha disatteso le aspettative. The Departed non si limita a celebrare o a denunciare il crimine organizzato; lo utilizza come lente per esplorare la decomposizione morale che si annida in ogni strato della società, dalle gang di strada ai vertici della polizia. È un film che, pur attingendo a piene mani dall'iconografia del genere, la trascende per diventare un'opera sulla perdita dell'innocenza, sulla ricerca impossibile di una redenzione e sulla natura ciclica della violenza. La sequenza finale, in particolare, con il suo nichilismo quasi glaciale, suggella un destino senza scampo, lasciando nello spettatore un senso di vuoto e l'amara consapevolezza che, in questo mondo corrotto, il 'topo' è sempre in agguato, pronto a riemergere, perpetuando un ciclo di tradimento e morte. Il trionfo agli Oscar, incluso quello per il Miglior Film e la Migliore Regia, non ha fatto altro che cementare lo status di questo dramma urbano come uno dei vertici della filmografia contemporanea, una gemma nera incastonata nella corona di Martin Scorsese, dimostrazione che il maestro del cinema americano ha ancora molto da dire sulle pieghe oscure dell'animo umano.
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