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The Elephant Man

1980

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David Lynch è un giovane e promettente regista notato da Mel Brooks grazie alla sua surreale opera prima Eraserhead, La Mente Che Cancella, piccolo grande cult uscito nel 1977. Brooks, un produttore atipico quanto geniale, rinomato per le sue commedie parodistiche, compie una mossa tanto audace quanto illuminata nell'affidare un progetto di tale delicatezza a un cineasta la cui estetica era fino a quel momento radicata nel grottesco onirico e nel tormento industriale.

Brooks decide di produrgli un secondo film dandogli la possibilità di realizzare il progetto a cui stava lavorando da tempo. Si tratta della riduzione cinematografica del libro di Frederick Treves, opera biografica sulla vita di John Merrick, individuo affetto da malattia rara con una vita a dir poco travagliata.

Un film atipico nella poetica di Lynch dove visione e complessità semantica recitano di solito un ruolo di primo piano, una trama che presenta il forte rischio di indulgere nel pietismo. Sebbene The Elephant Man si discosti dal suo linguaggio primario fatto di incubi lucidi e narrazioni non lineari, per chi sa leggere tra le pieghe, non mancano le impronte del suo autore. La rappresentazione dell'isolamento, la mostruosità che cela una bellezza interiore, l'esplorazione di spazi labirintici e oppressivi – siano essi ospedali o fabbriche – e l'irruzione del surreale (anche se qui ridotta ai brevi ma incisivi sogni di Merrick), sono tutti elementi che si ritrovano nella sua cifra stilistica. Il vero prodigio di Lynch sta nell'evitare la trappola del sentimentalismo, che un soggetto così drammatico avrebbe potuto facilmente generare. Egli non si limita a essere un "algido narratore", ma eleva la storia a una disamina quasi chirurgica della condizione umana, dove l'empatia è guadagnata non attraverso la manipolazione emotiva, ma dalla paziente rivelazione della dignità del suo protagonista.

Un’opera dunque che si discosta dal suo linguaggio primario ma che appare ugualmente grandiosa per fotografia, grazie allo straordinario bianco e nero del direttore della fotografia Freddie Francis che dona alla storia una levigatezza unica. La scelta del monocromo, ben oltre una semplice reminiscenza stilistica, è una dichiarazione d'intenti artistica. Francis, una leggenda vivente, la cui carriera spaziava dai melodrammi al cupo splendore di film horror come The Innocents, utilizza il bianco e nero per scolpire la luce e l'ombra in modo che non solo evochi l'atmosfera nebbiosa e fuligginosa della Londra vittoriana, ma anche per conferire al film un'aura di atemporalità fiabesca e, al contempo, un'inquietante verosimiglianza storica. Questa palette severa accentua le texture, dai tessuti degli abiti ai mattoni anneriti delle fabbriche, dalle forme grottesche del corpo di Merrick ai volti smarriti o crudeli dei suoi osservatori, focalizzando l'attenzione sull'essenza e la forma, eliminando ogni distrazione del colore. È un omaggio al cinema classico, che lega sottilmente la figura di Merrick ai mostri sacri del grande schermo, pur rovesciandone la narrativa per rivelare l'umanità dietro la maschera.

Si racconta la storia di John Merrick, affetto da neurofibromatosi (sebbene oggi si tenda a credere che fosse affetto da sindrome di Proteus, una distinzione cruciale nella comprensione scientifica della sua condizione) che gli ha sfigurato i tratti del volto confinandolo in una tenda di un circo ambulante come principale attrazione. L’uomo è oggetto della svilente curiosità morbosa del pubblico, un simbolo vivente della fascinazione vittoriana per il macabro e il diverso, una forma di intrattenimento popolare che sfruttava spietatamente le deformità altrui. Fino a quando non viene preso in consegna da un chirurgo, il Dottor Frederick Treves, che si incarica di ricoverarlo nel London Hospital per studiare la sua patologia.

Presto lo scienziato si renderà conto che la mostruosa maschera di carne cela umanità e sensibilità fuori dal comune. La performance di John Hurt, interamente affidata al linguaggio del corpo e agli occhi espressivi al di là delle imponenti protesi, è a dir poco iconica, veicolando l'anima di Merrick con una potenza che trascende la fisicità. Egli non è un semplice oggetto di studio o un'attrazione, ma un uomo con una ricca vita interiore, sensibile, colto, desideroso di bellezza e riconoscimento.

Un’opera di denuncia di Lynch verso la condizione abietta che i freaks debbono subire per soddisfare la turpitudine dei cosiddetti normodotati. È un'accusa non solo alla crudeltà manifesta del suo "proprietario" circense Bytes, ma a una società ipocrita che, pur celandosi dietro la facciata del progresso e della civiltà, perpetra una violenza sottile e pervasiva attraverso lo sguardo giudicante e la negazione dell'altro. La scena in cui Merrick, straziato dalle molestie e dall'ennesima umiliazione pubblica, prorompe con il grido "Non sono un elefante! Sono un essere umano!" è un momento di puro, straziante lirismo, che cristallizza il tema centrale del film: la disperata richiesta di riconoscimento della propria dignità e identità, al di là di qualsiasi deformità fisica o pregiudizio sociale.

Lynch riesce nell’impresa di non cadere nella trappola del pietismo ma rimane algido narratore e lascia che le emozioni seguano un loro naturale moto di traspirazione. Il suo approccio è quello di un osservatore attento, quasi clinico, che permette alla tragedia e alla redenzione di svilupparsi con una forza intrinseca, senza artifici retorici. Questo distacco calcolato è ciò che rende il film così profondamente incisivo: le lacrime non sono estorte, ma nascono spontaneamente da una comprensione profonda e non mediata della sofferenza e della bellezza insita nella condizione umana di Merrick.

Un film toccante, emozionante, palpitante nei suoi momenti di alto lirismo, ma mai retorico, un capolavoro che continua a risuonare per la sua onestà brutale e la sua profonda umanità.

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