The Fall
2006
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Regista
Un film può essere un artefatto, un oggetto trovato sul fondale dell'oceano della produzione cinematografica, ricoperto di concrezioni ma con un cuore di cristallo intatto. "The Fall" di Tarsem Singh è uno di questi artefatti. Non è semplicemente un film; è un'anomalia gloriosa, un unicorno cinematografico la cui esistenza stessa sembra sfidare le logiche industriali di Hollywood, sia quelle del 2006, anno della sua uscita, sia, a maggior ragione, quelle odierne. Guardarlo oggi equivale a scoprire un manoscritto miniato nell'era del Kindle: un atto di devozione estetica così folle e totalizzante da apparire quasi sovversivo.
La cornice narrativa è di una semplicità ingannevole, quasi da fiaba archetipica. Siamo in un ospedale di Los Angeles, intorno al 1915. Roy Walker, uno stuntman del cinema muto rimasto paralizzato dopo un salto andato storto, giace a letto, consumato dalla disperazione e dal desiderio di porre fine alla propria vita. Il suo mondo si scontra con quello di Alexandria, una bambina di cinque anni, figlia di immigrati, ricoverata con un braccio rotto. Per convincerla a rubargli della morfina, Roy inizia a tesserle un racconto epico, una saga fantastica i cui personaggi, a sua insaputa, prendono le sembianze delle persone che popolano il microcosmo dell'ospedale, filtrate attraverso l'immaginazione fervida e le ingenue interpretazioni della bambina.
Questo dualismo tra il mondo seppiato e dolente dell'ospedale e l'universo sgargiante e iper-reale del racconto è il motore del film. Ma non si tratta di una semplice fuga dalla realtà, come nel "Labirinto del Fauno" di del Toro, dove il fantastico è un rifugio oscuro e ambiguo dall'orrore franchista. Qui, la fantasia è un campo di battaglia. È il luogo in cui si negozia la vita e la morte, la speranza e la disperazione. Roy, come una moderna e disperata Shahrazād alla rovescia, non racconta per salvarsi la vita, ma per porvi fine. Alexandria, d'altro canto, diventa la co-autrice involontaria, l'audience attiva che con le sue domande, i suoi fraintendimenti (il "capo indiano" che diventa un "indiano" dell'India) e la sua innocenza incrollabile, dirotta la narrazione, la contamina di speranza, lottando per la sopravvivenza dei suoi eroi perché istintivamente capisce che sta lottando per la sopravvivenza del suo narratore.
È una dinamica meta-testuale di una profondità abissale. Roy è il creatore demiurgo, ma un demiurgo ferito, che infetta la sua creazione con il proprio nichilismo. Alexandria è il pubblico, non un recipiente passivo ma una forza che modella l'opera, che la redime. In questo, "The Fall" diventa una potentissima allegoria del cinema stesso. Roy, lo stuntman, è il corpo sacrificato sull'altare della nascente industria dei sogni, un reduce di quel cinema pionieristico e artigianale che stava per essere fagocitato dalla macchina dello studio system. La sua storia, un pastiche di generi pulp – western, cappa e spada, avventura esotica – è l'essenza stessa del cinema popolare. E nel momento in cui la sua disperazione minaccia di far collassare la narrazione in un gorgo di violenza e morte, è l'intervento del pubblico (Alexandria) a esigere un finale diverso, a salvare non solo i personaggi, ma l'atto stesso del raccontare. Il film suggerisce che nessuna storia appartiene interamente al suo autore una volta che è stata donata al mondo.
Visivamente, Tarsem Singh opera al di fuori di ogni categoria. Rifiutando quasi completamente la CGI, il regista ha trascinato la sua troupe per oltre venti paesi nell'arco di quattro anni, componendo un arazzo di immagini che possiede una qualità tattile, una gravità fisica che l'effettistica digitale non potrà mai replicare. Ogni fotogramma è una tavola preraffaellita passata al setaccio del surrealismo di Dalí e della visionarietà psichedelica di Jodorowsky. Vediamo deserti namibiani le cui dune sembrano dipinte, architetture indiane che paiono uscite da un sogno di Escher, labirinti di siepi che sfidano la geometria, elefanti che nuotano in oceani cobalto. Non è realismo magico; è una realtà trasfigurata, osservata attraverso un caleidoscopio. Il parallelo più ovvio è con il Terry Gilliam de "Le avventure del Barone di Munchausen", ma mentre Gilliam è intriso di un'ironia barocca e di una malinconia tutta europea, Tarsem possiede un afflato più sincero, quasi infantile, nel suo stupore per la bellezza del mondo. La sua è una celebrazione sinestetica, un atto di fede nel potere dell'immagine pura, che ricorda l'audacia cromatica di Powell e Pressburger in film come "Scarpette Rosse" o "Scala al Paradiso".
La performance di Lee Pace è un tour de force di vulnerabilità e amarezza. Si racconta che, per gran parte delle riprese, Pace abbia convinto la giovanissima Catinca Untaru di essere realmente paraplegico, per ottenere da lei una reazione più spontanea e genuina. Questa scelta, eticamente discutibile ma artisticamente fruttuosa, crea una chimica palpabile. Il loro rapporto è il cuore pulsante che impedisce al film di diventare un mero esercizio di stile, una galleria di immagini mozzafiato ma senz'anima. La piccola Untaru, con la sua recitazione priva di filtri, è l'ancora emotiva del film, il suo centro di gravità morale.
Certo, si potrebbe accusare "The Fall" di un certo orientalismo da cartolina, di mettere in scena un collage di esotismi decontestualizzati. Ma sarebbe un'analisi superficiale. Il film non pretende mai di essere un documentario antropologico. La sua estetica è esplicitamente quella di un immaginario composito, filtrato non solo dalla mente di Roy, un uomo del suo tempo nutrito di avventure popolari, ma soprattutto da quella di una bambina del 1915, la cui conoscenza del mondo è limitata a qualche figurina e al racconto frammentario degli adulti. Il risultato è un "pastiche" consapevole, un sogno a occhi aperti costruito con i mattoni di un immaginario collettivo nascente. È la stessa logica de "Il Mago di Oz", in cui i personaggi di latta, di paglia e codardi non sono altro che proiezioni trasfigurate dei braccianti del Kansas. Allo stesso modo, il bandito mascherato, l'esperto di esplosivi, il naturalista inglese e il mistico indiano non sono che i riflessi fantastici dell'attore del cinema muto, dell'artificiere, di Charles Darwin e del venditore di gelati che popolano i corridoi dell'ospedale.
"The Fall" è un'opera che vive di contrasti: tra la staticità claustrofobica dell'ospedale e la libertà cinetica del mondo fantastico; tra il cinismo di un adulto e la fede di una bambina; tra la parola che cerca di distruggere e l'immagine che cerca di salvare. È un film sul dolore della creazione e sulla necessità vitale della narrazione. In un'epoca in cui i mondi fantastici sono generati da server farm e resi ineccepibili da algoritmi, la visione di Tarsem, imperfetta, idiosincratica, ma disperatamente umana e tangibile, risuona come un monito e un manifesto. È un inno a un cinema che osa essere smisurato, che non teme il ridicolo pur di raggiungere il sublime, e che ci ricorda che le storie più potenti non sono quelle che ci fanno evadere dalla realtà, ma quelle che ci danno gli strumenti per trasformarla.
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