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The Girl with the Needle

2024

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Ancora una volta il Nord Europa partorisce, per mano del regista svedese emergente Magnus von Horn, un'opera di una bellezza formale quasi dolorosa, un incubo in bianco e nero che, partendo da un agghiacciante fatto di cronaca vera, trascende il true crime per diventare una meditazione universale sulla disperazione, sulla maternità e sulla mostruosità che può nascondersi dietro il volto della carità. Von Horn, regista svedese che si immerge con una sicurezza magistrale nell'anima più cupa della Danimarca, firma un'opera che si inserisce di diritto nel canone del grande cinema nordico, un film che ti entra sotto la pelle con la lentezza e la precisione di un ago da cucito.

La storia, ambientata in una Copenaghen del 1919 ferita e impoverita dalla Grande Guerra, segue la giovane operaia Karoline. Rimasta incinta dopo che il suo amante l'ha abbandonata, e cacciata dalla sua padrona di casa, Karoline si ritrova sola, disoccupata e senza alcuna speranza. In questo abisso di disperazione, incontra una figura che le appare come un angelo salvatore: Dagmar, un'anziana e carismatica proprietaria di un negozio di dolci che, nel retrobottega, gestisce un'agenzia clandestina per le adozioni. Offre un rifugio alle madri non sposate, prendendo i loro neonati indesiderati per affidarli a famiglie adottive. Tra Karoline e Dagmar nasce una forte e intima connessione, un legame quasi materno. Ma il mondo di Karoline, e il nostro, va in frantumi quando, pezzo dopo pezzo, scopre la scioccante e inimmaginabile verità che si nasconde dietro il lavoro di Dagmar.

Il film è profondamente radicato nella sua specifica realtà storica e sociale. La vicenda si basa sul caso reale di Dagmar Overbye, una delle più prolifiche serial killer della storia danese, una "fabbricante di angeli" che, tra il 1913 e il 1920, uccise un numero imprecisato di neonati affidati alle sue cure. Ma il film di von Horn non è interessato all'indagine poliziesca. È interessato a creare un'opera sull'atmosfera che ha reso possibile un tale orrore. La Copenaghen del film è una città di disperati. La condizione della donna, in particolare quella di una madre nubile e senza mezzi, era un vicolo cieco sociale ed economico. La società non offriva alcuna rete di sicurezza, solo giudizio e condanna. In questo contesto, una figura come Dagmar non poteva che apparire come una santa, una benefattrice che offriva una soluzione a un problema altrimenti insolubile. Il film è una potentissima accusa a un sistema che, criminalizzando la vulnerabilità, crea involontariamente i propri mostri e le condizioni perfette perché essi possano prosperare.

È impossibile non inserire quest'opera in un dialogo con la grande tradizione del cinema danese, da Dreyer a Von Trier e Vinterberg. Il nume tutelare che aleggia su ogni inquadratura è senza dubbio Carl Theodor Dreyer. L'ascetismo formale, il rigore quasi teologico, la fotografia in bianco e nero che scolpisce il dolore sui volti e, soprattutto, l'attenzione quasi masochistica alla sofferenza di una protagonista femminile, sono un omaggio diretto a capolavori come La passione di Giovanna d'Arco o Dies Irae. C'è in von Horn la stessa sensazione di un male ineluttabile, quasi metafisico. Se si passa a Lars von Trier, il collegamento è nel tema della protagonista femminile che attraversa un calvario di abusi e sofferenze, come in Le onde del destino o Dancer in the Dark. Ma dove von Trier usa spesso la provocazione e la decostruzione del melodramma, von Horn opta per un approccio più classico e atmosferico, più vicino alla grammatica del cinema horror. Il confronto con il movimento Dogma 95, co-fondato da von Trier e Thomas Vinterberg, avviene invece per totale contrasto. Dogma era una ribellione contro l'artificio, una ricerca della verità "nuda" attraverso la camera a mano e la luce naturale. The Girl with the Needle è l'esatto opposto: è un'opera di un'artificialità e di un controllo formale assoluti, un mondo meticolosamente costruito in studio che dimostra come il cinema post-Dogma si sia riappropriato con forza della potenza estetica e della messa in scena.

L'estetica del bianco e nero di von Horn è il cuore visivo del film. Non è un bianco e nero realista o documentaristico. È un bianco e nero espressionista, che deve più al cinema muto tedesco che alla realtà. La fotografia di Radek Ładczuk è un capolavoro di chiaroscuri. La Copenaghen del film è una città di ombre profonde e di luci quasi accecanti. Questa estetica crea quella che si potrebbe definire un'"eterna ghirlanda brillante": la luce spesso crea degli aloni, delle aureole attorno ai personaggi e agli oggetti, una bellezza ingannevole che avvolge una realtà sordida e terrificante. È un'estetica che ricorda da vicino il cinema espressionista tedesco di Murnau e Lang: la città è un labirinto, gli interni sono claustrofobici e i volti sono maschere su cui si proietta un'angoscia interiore. È un mondo fuori sesto, moralmente e visivamente.

Il rapporto tra Karoline e Dagmar è il centro psicologico del dramma. Non è un semplice gioco tra gatto e topo. È un legame complesso, una sorta di folie à deux per procura, dove Karoline, disperatamente bisognosa di una figura materna e di un rifugio, sceglie attivamente di non vedere, di non capire. Si aggrappa all'immagine di Dagmar come benefattrice perché l'alternativa è un abisso di orrore che la sua mente non può concepire. Il film è magistrale nel mostrare la sua lenta e terribile presa di coscienza, un processo di disillusione che avviene attraverso piccoli dettagli, rumori sospetti, bugie che iniziano a incrinarsi. La scoperta della verità non è una rivelazione improvvisa, ma un lento avvelenamento dell'anima.

La visione di questo film disvela quindi un'opera di una potenza rara, un film che usa i codici del cinema horror e del gotico per raccontare una storia terribilmente umana. È un film sulla disperazione femminile, sulla perversione dell'istinto materno e sulla facilità con cui la società volta lo sguardo dall'altra parte di fronte all'orrore, specialmente quando le vittime sono invisibili. Magnus von Horn si consacra come un autore di prim'ordine, capace di creare un'atmosfera indimenticabile e di porre domande morali complesse senza offrire alcuna facile consolazione.

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