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Grand Budapest Hotel

2014

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Gianni Rodari in un luogo particolarmente illuminante del suo saggio “Grammatica della Fantasia” descrive così la genesi di una fiaba nel suo impulso creativo primario: “L’immaginazione del bambino, stimolata a inventare parole, applicherà i suoi strumenti su tutti i tratti dell’esperienza che sfideranno il suo intervento creativo.

Le fiabe servono alla matematica come la matematica serve alle fiabe.

Servono alla poesia, alla musica, all’utopia, all’impegno politico: insomma, all’uomo intero, e non solo al fantasticatore.”.

Wes Anderson, grande artigiano della fiaba, sembra sposare alla lettera questo assunto di Rodari costruendo il suo meraviglioso castello iconografico del Grand Budapest Hotel con ogni strumento a sua disposizione. La sua non è mera narrazione, ma una vera e propria architettura dell'immaginario, un laboratorio in cui la fantasia si manifesta attraverso la meticolosità del dettaglio, le sinfonie cromatiche e la precisione geometrica che lo contraddistinguono. Ogni fotogramma è un diorama vivente, una miniatura animata che palpita di vita e di un'estetica inconfondibile.

La sua arte nel plasmare questa storia surreale eppure così tremendamente attagliata a certe feroci episodi del passato sembra essere conscia del messaggio universale di cui è portatrice. Il film, infatti, pur avvolgendo lo spettatore in un turbine di eleganza pastello e umorismo forbito, non si sottrae al compito di evocare l'ombra incombente della storia europea, quella Mitteleuropa scintillante destinata a essere inghiottita dalla barbarie dei totalitarismi. Un'eco lontana, ma vibrante, della malinconia del mondo perduto magnificamente descritto da Stefan Zweig, autore spesso citato da Anderson stesso come fonte d'ispirazione per l'atmosfera e la figura del suo protagonista.

Nel 1932 il Grand Budapest Hotel è il fiore all’occhiello dell’ospitalità nella Repubblica di Zubrowka, un paese di fantasia che funge da specchio distopico e stilizzato dell'Austria-Ungheria d'antan. Nella grande Hall si avvicendano celebrità, dignitari e nobiltà mitteleuropea, un caleidoscopio di personaggi che popolano un'epoca prossima alla sua fine. Gustave H. è il concierge che funge da Deus Ex Machina: impartisce ordini, tiene i rapporti con il personale e le pubbliche relazioni con i gentili ospiti. È un signore dai gusti raffinati e un po’ grotteschi (ama fare sesso con donne anziane), adora la poesia e il buon gusto, un custode di galateo e di un'eleganza quasi anacronistica in un mondo che sta per implodere. La sua figura è quella di un ultimo baluardo di civiltà e decoro in procinto di essere spazzato via.

Una delle sue attempate amanti, la ricchissima Madame D., muore in circostanze misteriose e gli lascia in eredità un prezioso dipinto di Johannes Van Hoytl il Giovane: "Il ragazzo con mela". Gustave si reca a ritirare il dipinto con Zero Moustafa, il nuovo lobby boy, un orfano rifugiato che egli prende sotto la sua ala protettrice. Il loro rapporto, inizialmente di maestro-apprendista, si trasforma nel cuore emotivo del film: un legame paterno-filiale che sfida le convenzioni e le avversità.

Intorno a questo dipinto, che funge da classico macguffin hitchcockiano, si scatenerà ben presto una surreale partita a scacchi tra parenti delusi dal testamento della nobildonna dipartita e Gustave. La famiglia di Madame D., in particolare il figlio Dmitri con il suo sicario J.G. Jopling (un Willem Dafoe dalla spietatezza quasi cartoonesca), si oppone con violenza e perfidia alla volontà della defunta. Gustave intanto viene arrestato perché creduto implicato nella morte della donna che in realtà non ha lasciato solo il dipinto a Gustave ma l’intero suo patrimonio.

Una girandola di mirabolanti avventure si susseguono a ritmo serrato con il coinvolgimento di: un’invasione militare da parte di una forza occupante che ricorda molto da vicino i nazisti, con le loro divise cupe e le loro intenzioni brutali che stridono violentemente con la leggerezza estetica del film; uno spietato assassino al soldo di uno dei terribili figli della nobildonna; una ragazza con una voglia a forma di Messico sulla guancia, la tenera e coraggiosa Agatha, che diventerà l'interesse amoroso di Zero; dei dolci di una bontà talmente soprannaturale da rendere più miti anche spietati assassini in carcere, le celebri Mendl’s, simbolo di un'arte che persiste e affascina anche nel caos; e la lista potrebbe continuare molto a lungo, includendo un'indimenticabile fuga dalla prigione con una banda di detenuti fuori di testa e un'epica discesa su una pista da sci.

Anderson dosa sapientemente i diversi formati e aspect ratio (il 1.37:1 per le scene ambientate nel 1932, il 2.35:1 per gli anni '60, e il 1.85:1 per la cornice narrativa contemporanea), non solo come mero esercizio stilistico, ma come espressione della memoria che si deforma e si stratifica, aggiungendo strati al racconto di un tempo che fu. L'uso maniacale della simmetria, delle inquadrature frontali e dei movimenti di macchina precisi, quasi coreografici, conferisce al film un'atmosfera unica, a metà tra il teatro di marionette e l'illustrazione di un libro pop-up, un'estetica che celebra la forma tanto quanto il contenuto. La straordinaria coralità del cast, in cui ogni attore, dal protagonista Ralph Fiennes all'ultimo dei cameo, si fonde con la visione del regista, contribuisce a creare un universo coeso e irresistibile.

Grand Budapest Hotel è il trionfo della creatività, della fantasia, della meraviglia sussurrata sotto forma di favola. È un canto d'amore e di rimpianto per un'era perduta, filtrato attraverso la lente distorta eppure profondamente vera della narrazione. Wes Anderson diviene irresistibile affabulatore nella penombra che ci seduce con la sua malia iconografica, con le sue sinuose simmetrie, con le sue creature obliquamente stupefacenti. Una cascata di favole investe lo spettatore che rimane frastornato e sorridente a seguire il flusso fantastico, perché, per dirla con Gianni Rodari, ogni uomo ha bisogno di favole per vivere, non solo i fantasticatori, specialmente quando queste favole, nella loro apparente levità, sanno parlarci della caducità delle cose e della resilienza dello spirito umano di fronte alla storia.

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