La Grande Fuga
1963
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Regista
Quando Sturges si posizionò dietro la cinepresa e studiò le migliori inquadrature per le scene di inseguimento in motocicletta con Steve McQueen, forse non realizzò di essere sul punto di realizzare un cliché iconografico indelebile.
Eppure così è stato.
E ancora oggi ammirare McQueen che saetta e si divincola come un serpente in sella alla sua Triumph TR6 Trophy (camuffata da BMW nazista) vale l’intero film. Un momento, questo, che trascende la semplice acrobazia cinematografica per radicarsi nell’immaginario collettivo come simbolo di un’epoca e di un’attitudine. Non è solo il “King of Cool” a pilotare la sua motocicletta attraverso fossati e reticolati; è l’incarnazione stessa dell’indomito spirito di libertà, un’icona ribelle che si scontra con la rigidità del regime. Si dice che McQueen, un pilota provetto, abbia insistito per girare gran parte delle scene di inseguimento, aggiungendo autenticità e brio a sequenze già adrenaliche. Sebbene la leggenda voglia che abbia saltato lui stesso la recinzione, fu il suo stuntman di fiducia, Bud Ekins, a compiere l’impresa più ardua e iconica, cementando un mito che ha superato la stessa realtà della produzione. L’immagine di McQueen, nel suo giaccone di cuoio e il volto contratto dallo sforzo, divenne il poster child di un’intera generazione, un archetipo del maschio d’azione destinato a influenzare decenni di cinema a venire, da Indiana Jones a James Bond.
La storia è quella di un manipolo di prigionieri angloamericani in una campo di prigionia nazista che progettano una fuga di massa per ostacolare il più possibile il nemico e favorire l’avanzata degli alleati nel Paese. Ma definire "La Grande Fuga" una semplice storia di evasioni sarebbe riduttivo. È, in realtà, un affresco corale sulla resilienza umana e sull’ingegno collettivo di fronte all’oppressione più assoluta. Ogni soldato e ufficiale avrà un preciso compito nel piano e tutto sarà organizzato nei minimi dettagli, dal “Grande X” interpretato da Richard Attenborough, mente strategica e cuore pulsante dell’operazione, allo “Scrounger” Charles Bronson, esperto nello scovare l’impossibile, al “Forger” Donald Pleasence, maestro di contraffazione, fino al già citato “Cooler King” di McQueen, l’incorreggibile ribelle. Sturges assembla una galleria di personaggi memorabili, ognuno un tassello indispensabile in un meccanismo di precisione svizzera, ma allo stesso tempo vulnerabile e profondamente umano. Il film eleva il concetto di evasione da mero atto di ribellione individuale a vera e propria operazione bellica, concepita per distogliere risorse naziste e, in ultima analisi, accelerare la fine del conflitto. È un’ode non solo al coraggio, ma alla meticolosità, alla pazienza e alla capacità di creare un microcosmo di speranza e attività all’interno di un universo progettato per la disperazione.
Ma, come spesso accade nella vita e nella guerra, qualcosa andrà ugualmente storto, non per un errore di calcolo, ma per l’imprevedibile e brutale forza della realtà. L’ottimismo, la speranza, la fede nella logica e nell’ingegno si scontrano con la ferocia della repressione nazista, trasformando il sogno di libertà in un’amara lezione sulla fragilità dell’eroismo e sull’alto prezzo della resistenza. Il film non edulcora le conseguenze del fallimento, anzi, le mostra con una gravità che ne amplifica l’impatto emotivo, bilanciando il tono avventuroso con momenti di palpabile tragedia. Questo equilibrio tra l’eccitazione del piano e la malinconia del suo esito rende il film un’opera complessa e stratificata, ben oltre il suo genere di appartenenza.
Un film, inutile dirlo, epico e appassionante, che trascende la semplice narrazione di guerra per diventare un’allegoria universale della lotta per la libertà. La maestria di Sturges si rivela nella capacità di costruire una tensione quasi insostenibile, alternando i ritmi serrati delle preparazioni e delle fughe con momenti di pausa che permettono allo spettatore di respirare e connettersi emotivamente con i protagonisti. Le riprese denotano un ottimo repertorio tecnico che spazia dai campi lunghi ai piani sequenza ai primi piani: inquadrature vivide ed efficaci, ottimo complemento ad una narrazione serrata e incalzante. La macchina da presa di Sturges è un occhio onnisciente che esplora gli angusti cunicoli scavati sotto la terra (il claustrofobico 'Tom', 'Harry' e 'Dick') e poi si apre su panorami mozzafiato, sottolineando la disperazione dell’essere braccati in un mondo vasto ma ostile. La regia è un vero e proprio esercizio di stile, capace di elevare un dramma da prigionia a epopea di resistenza, senza mai perdere di vista l’umanità e la vulnerabilità dei suoi protagonisti. La colonna sonora di Elmer Bernstein, poi, con i suoi temi vibranti e indimenticabili, è quasi un personaggio a sé stante, capace di dettare il ritmo narrativo e infondere speranza o disperazione con la stessa efficacia. Il suo motivetto principale, un inno alla determinazione, è diventato tanto iconico quanto le immagini che accompagna, imprimendosi indelebilmente nella memoria collettiva. Il film, pur ispirandosi a eventi reali (la fuga da Stalag Luft III del 1944), forgia una narrazione che va oltre il mero resoconto storico, per indagare la psicologia della prigionia e la dignità intrinseca all’atto di non arrendersi. È questo mix di precisione storica e licenza artistica, di avventura e tragedia, di puro intrattenimento e profonda riflessione, che assicura a "La Grande Fuga" un posto d'onore nell'Olimpo del cinema.
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