La Montagna Sacra
1973
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Regista
Alejandro Jodorowsky è un regista dalla visuale ultraterrena, surreale e mistificante. La sua arte non si limita a narrare, ma piuttosto a officiato un rito, una seduta sciamanica che mira a scuotere l'anima dello spettatore dalle sue fondamenta più recondite. Jodorowsky, figura poliedrica di origine cilena, cresciuto nella fertile effervescenza del movimento Panico – da lui stesso co-fondato con Fernando Arrabal e Roland Topor – ha sempre concepito il cinema non come mero intrattenimento o evasione, ma come un veicolo per l'espansione della coscienza, una forma di terapia psicomagica collettiva.
La Montagna Sacra, infatti, è un film che toglie ogni certezza, elimina ogni punto di riferimento. Non si tratta di una narrazione lineare, ma di una cavalcata onirica e disorientante attraverso icone religiose dissacrate, grotteschi idoli pagani e miracoli a buon mercato. Ogni sequenza è un tableau vivant, un affresco vivido e spesso urticante che si spinge oltre i confini del consueto, sfidando la logica e la morale borghese. I corpi nudi, le mutilazioni simboliche, le architetture surreali e i colori saturati, quasi allucinogeni, non sono un mero vezzo estetico, ma strumenti di un linguaggio visivo che mira a bypassare la ragione per comunicare direttamente con l'inconscio. Jodorowsky, in questo, si ricollega idealmente al cinema surrealista di Luis Buñuel, specialmente alle sue opere più provocatorie come L'Ange exterminateur, pur spingendo l'esplorazione del subconscio in territori ancor più esoterici e spirituali, richiamando forse la libertà visionaria di un Fellini ma con una finalità trasformativa ben più dichiarata. La pellicola, intrisa dell'estetica psichedelica e delle aspirazioni trascendentali della controcultura degli anni '70, si erge a monumento di un cinema ribelle e profondamente filosofico.
Al centro di questa epopea, nove uomini, tra i più potenti della terra, che incarnano vizi capitali e archetipi del potere mondano – il generale sanguinario, il magnate delle armi, il costruttore di bambole, la signora della bellezza – si mettono alla ricerca della Montagna Sacra, dove è nascosta la fonte dell’Immortalità. Ognuno di loro è un’allegoria vivente del fallimento spirituale mascherato dal successo materiale, una caricatura eccessiva delle fissazioni e delle perversioni di una società occidentale ossessionata dal consumo e dall'apparenza. La loro è una ricerca dell'immortalità intesa nel senso più grossolano e materiale, un prolungamento egoico del loro potere terreno, che verrà sistematicamente smantellato.
Li guiderà una sorta di messia errante, un alchimista dai poteri enigmatici, interpretato dallo stesso Jodorowsky, che li conduce attraverso prove e segreti mistici da superare per raggiungere la meta. Questo maestro, un vero e proprio demiurgo cinematografico, impone ai suoi discepoli non solo un viaggio fisico estenuante attraverso paesaggi allucinatori e incontri bizzarri, ma un percorso iniziatico che li spoglia progressivamente delle loro identità mondane, dei loro beni materiali e delle loro certezze interiori. L'intero processo è una metafora dell'opera alchemica: la nigredo (putrefazione), l'albedo (purificazione), la citrinitas (soluzione) e la rubedo (perfezione), che non riguardano la trasformazione dei metalli vili in oro, ma la transmutazione dell'ego grossolano in consapevolezza pura. Jodorowsky applicò queste stesse metodologie di trasformazione anche ai suoi attori, sottoponendoli a diete, meditazioni e esercizi spirituali per farli "essere" i loro personaggi, non solo interpretarli.
Durante il cammino si renderanno conto che la vera immortalità non risiede in un elisir fisico o in un luogo geografico, ma consiste nello (ri)scoprire il proprio vero io, denudato da ogni orpello sociale e mondato da ogni vincolo umano. È un viaggio di disillusione necessaria, un processo catartico attraverso il quale l'individuo deve smantellare le proprie sovrastrutture egoiche per rivelare la propria essenza autentica. Questo tema della ricerca interiore e della liberazione dalle catene del materialismo risuonava profondamente con le istanze della controcultura degli anni '70, per la quale La Montagna Sacra, finanziato in parte dai fondi di John Lennon e Yoko Ono (che rimasero estasiati dal precedente El Topo), divenne un vero e proprio manifesto cinematografico e spirituale, benché di nicchia.
Il film contiene numerosi riferimenti alla Cabala, allo Zodiaco, ai Tarocchi (su cui Jodorowsky ha scritto diversi libri) e naturalmente all’Alchimia. Non si tratta di semplici citazioni colte, ma di pilastri concettuali che strutturano l’intera narrazione e la simbologia visiva. Jodorowsky, da studioso e praticante assiduo dei Tarocchi di Marsiglia – di cui ha approfondito il simbolismo in numerosi libri e seminari, arrivando a curarne una restaurazione – li utilizza come una mappa esoterica dell'anima umana, con i personaggi che talvolta incarnano gli archetipi degli Arcani Maggiori. Allo stesso modo, l'Alchimia non è solo un tema, ma il principio operativo del film: trasmutare la materia grezza dell'esistenza, rappresentata dalle debolezze e dalle illusioni dei protagonisti, in oro spirituale, ovvero la consapevolezza e l'illuminazione. Ogni scena è satura di simboli, spesso stratificati, che invitano lo spettatore a una decodifica attiva, quasi meditativa, superando la mera fruizione passiva.
Un’opera splendida dove la realtà spesso agonizza, si ha cioè l’impressione di uno sfasamento costante, di essere continuamente messi alla prova dal narratore attraverso la creazione di parabole in forma parodistica, in una girandola infinita di stati subcoscienti. La satira mordace nei confronti della religione istituzionalizzata e del consumismo spirituale è tagliente: assistiamo alla produzione in serie di idoli religiosi, alla crocifissione di un Cristo-turista che scatta foto, a guru che dispensano saggezza a pagamento. Tutto è ridotto a merce, compresa la ricerca della trascendenza, e Jodorowsky smaschera con ferocia questa commercializzazione del sacro, mettendo in scena un mondo in cui ogni ideale è stato svuotato di significato e trasformato in un mero prodotto da consumare.
Il culmine di questo sfasamento arriva nel finale, una delle sequenze più audaci e memorabili della storia del cinema. Dopo un viaggio estenuante e rivelatore, quando i discepoli sono finalmente pronti a raggiungere la cima della Montagna Sacra e a ricevere il segreto dell'immortalità, l'alchimista infrange la quarta parete. La macchina da presa si allontana, rivelando l'intera scena come un set cinematografico, con la troupe, le luci e lo stesso Jodorowsky che si rivolge direttamente allo spettatore. "Non è vero che la verità sia nascosta in un luogo o in un oggetto", ammonisce, "la verità è ciò che fai tu di essa. La Montagna Sacra non è ciò che credevate". Questo gesto meta-cinematografico non è una semplice rottura della finzione, ma la massima espressione del messaggio del film: l'illuminazione non è un destino passivo o una rivelazione esterna, ma una comprensione attiva e una costruzione interiore. Il film stesso, come il viaggio dei protagonisti, diventa un mero strumento per indurre una trasformazione nello spettatore, un catalizzatore per la propria "Montagna Sacra" personale. È un lungo sogno ad occhi aperti che si dissolve nella consapevolezza che il vero viaggio, l'unica vera ricerca, è dentro di noi, e che la tela del cinema, per quanto affascinante, è solo un mezzo per illuminare il sentiero.
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