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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

The Irishman

2019

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Un testamento cinematografico assume spesso le forme più inaspettate. Può essere il ruggito finale di un leone ferito o il sussurro sommesso di chi, giunto al tramonto, si volta a contemplare il sentiero percorso. The Irishman di Martin Scorsese non è un ruggito. È un’elegia funebre lunga tre ore e mezza, un requiem per un genere che lo stesso regista ha contribuito a definire e, in definitiva, a mitizzare. Se Quei Bravi Ragazzi era l'esplosione punk-rock di adrenalina e cocaina, la cronaca di un’ascesa elettrizzante raccontata con la velocità di un proiettile, The Irishman è il suo contrappunto blues, suonato lentamente su una chitarra scordata in una stanza vuota. È il punto finale, la nota malinconica che risuona dopo che la musica è finita e gli applausi si sono spenti.

La narrazione, affidata alla voce rotta e senile di Frank Sheeran (un Robert De Niro monumentale nella sua stanchezza esistenziale), non è un flusso di coscienza joyciano, ma piuttosto un esercizio di memoria proustiano, frammentato e inaffidabile. Seduto su una sedia a rotelle in una casa di riposo, Sheeran dipana il filo dei suoi ricordi, un racconto che si muove avanti e indietro nel tempo come un pendolo che ha perso il suo ritmo. È un fantasma che racconta la propria storia di fantasmi. Questo non è il mondo glamour e seducente di Henry Hill, dove essere un gangster era meglio che essere Presidente degli Stati Uniti. Qui, "pitturare case" – l'eufemismo per l'omicidio a contratto – è un lavoro. Un mestiere sporco, metodico, privo di qualsiasi alone romantico. Scorsese, con una lucidità quasi crudele, smantella pezzo per pezzo la mitologia che aveva costruito, mostrando il lato burocratico e desolante del crimine organizzato.

Il cuore pulsante del film non è l'enigma irrisolto della scomparsa di Jimmy Hoffa (un Al Pacino vulcanico, istrionico, che incarna la hybris di un uomo divorato dal proprio ego), bensì il triangolo di lealtà e tradimento che lega Sheeran al suo mentore, il boss Russell Bufalino. E qui entra in scena la vera rivelazione del film: Joe Pesci. Dimenticate la furia psicotica di Tommy DeVito. Il suo Russell Bufalino è una creatura di silenzio e potere sussurrato. Parla poco, osserva tutto. I suoi ordini sono impartiti con un cenno del capo, uno sguardo, una pausa significativa. È il potere nella sua forma più pura e terrificante: quello che non ha bisogno di alzare la voce. La sua performance è un capolavoro di sottrazione, un buco nero di autorità che attira a sé ogni cosa, compresa l'anima di Frank Sheeran. La sua quiete è più spaventosa di qualsiasi esplosione di violenza di Pacino.

Molto si è discusso sulla tecnologia di de-aging utilizzata per ringiovanire il trio di protagonisti. Criticarla puramente sul piano tecnico, notando l'inevitabile "uncanny valley" in certi movimenti, significa mancare il punto. Il ringiovanimento digitale non è un vezzo estetico, ma un dispositivo tematico. Rappresenta la fallibilità della memoria stessa. Vediamo un De Niro con il volto levigato, ma i suoi occhi, la sua postura, il suo modo di muoversi appartengono a un uomo anziano che ricorda di essere stato giovane. È un'immagine imperfetta, quasi spettrale, che incarna perfettamente l'atto di un vecchio che tenta di sovrapporre il ricordo del proprio io passato al corpo decadente del presente. È come guardare un autoritratto tardo di Rembrandt: la tecnica è magistrale, ma ciò che colpisce è l'anima antica che trapela dalla tela, un'anima che ha visto tutto e non può più nasconderlo.

Scorsese orchestra il suo film come una sinfonia crepuscolare. La fotografia di Rodrigo Prieto spegne i colori saturi del passato del genere, immergendo la narrazione in una palette di grigi, marroni e blu desaturati, i colori della memoria che sbiadisce. La colonna sonora, curata da Robbie Robertson, evita i classici rock che punteggiavano le sue opere precedenti, preferendo melodie d'epoca che suonano come echi lontani da un'altra vita. Il ritmo è deliberatamente lento, meditativo. Scorsese ci costringe a vivere il tempo come lo vive Frank: un'infinita distesa di momenti che portano, inesorabilmente, al nulla. Il film non ha fretta, perché il suo protagonista non ha più un posto dove andare.

Il vero nucleo tragico, la ferita da cui sgorga tutto il pathos del film, non risiede negli omicidi o negli intrighi di potere, ma nel rapporto tra Frank e sua figlia Peggy (interpretata da Lucy Gallina da bambina e da Anna Paquin da adulta). Peggy è la coscienza morale del film. Non parla quasi mai, ma il suo sguardo silenzioso e accusatore è un tribunale permanente. È lei che vede l'oscurità nel padre, l'uomo che i suoi capi amano ma che lei non può perdonare. Il suo silenzio è più potente di qualsiasi dialogo. È un giudizio che Frank non può eludere, un amore perduto che nessuna lealtà criminale può compensare. La scena in cui Frank, ormai anziano, cerca di parlarle e lei si limita a chiudergli la porta in faccia è forse il momento più violento e straziante del cinema scorsesiano. Non c'è sangue, non ci sono proiettili, solo il suono di un chiavistello che si chiude, sigillando una condanna eterna.

The Irishman si inserisce in quella tradizione di opere della tarda età, come il Don Chisciotte di Cervantes o La Tempesta di Shakespeare, in cui un autore fa i conti con i temi di una vita e con la propria stessa mortalità. È un film che dialoga con l'intera storia del cinema americano, dal noir classico al gangster movie, ma lo fa per officiarne il funerale. L'epopea del crimine, che un tempo rappresentava una via contorta al Sogno Americano, qui si rivela per quello che è: un vicolo cieco spirituale. L'ultima mezz'ora del film è un'immersione nell'abisso della solitudine. Frank sceglie la sua bara, visita la propria tomba, cerca di confessarsi a un prete che non può comprendere l'enormità dei suoi peccati. "Chi?" chiede il prete, quando Frank menziona Jimmy Hoffa, rivelando come anche le figure più mitiche siano destinate a svanire nell'oblio.

La sequenza finale, con Frank che chiede all'infermiera di lasciare la porta della sua stanza leggermente aperta, è un'immagine di una potenza devastante. È un'eco lontana di un'abitudine di Hoffa, ma è anche il gesto disperato di un uomo terrorizzato dalla solitudine finale, che spera ancora che qualcuno – chiunque – possa entrare. Ma nessuno entrerà. È il finale che T.S. Eliot avrebbe scritto per un gangster: non uno schianto, ma un lamento. The Irishman non è solo un grande film di gangster. È un'opera monumentale sulla fragilità della memoria, sul peso del tempo e sul prezzo indicibile della lealtà. È Scorsese che guarda negli occhi il genere che lo ha consacrato e, con la saggezza amara di un vecchio maestro, ne pronuncia l'epitaffio. E in quel silenzio, troviamo una verità più profonda e terribile di qualsiasi sparatoria.

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