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The Killer

1989

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Regista

John Woo nel suo periodo Hong Kong pre-Hollywood da il meglio di sè con un film in cui il dinamismo delle scene di azione (magistralmente concepite e filmate) fa da contraltare ad un intimismo psicologico che ci regala ampi squarci della mente di un gangster. Non si tratta semplicemente del culmine di una fase, ma della cristallizzazione di uno stile che avrebbe ridefinito il cinema d'azione mondiale. "The Killer", infatti, rappresenta l'epitome di quella che è stata definita la corrente dell'"heroic bloodshed", un genere in cui la violenza esasperata si carica di un lirismo quasi operistico, elevandosi a strumento di esplorazione delle dinamiche umane più profonde: l'onore, la lealtà, il tradimento e la ricerca di redenzione. Woo non si limita a coreografare scontri a fuoco; egli dipinge con proiettili e fumo, trasformando ogni sequenza in un balletto mortale, un inno alla catarsi attraverso la distruzione.

Vagamente ispirato al Frank Costello di Melville (che Woo omaggia con rimandi palesi o nascosti nel tessuto narrativo) è la storia di un gangster che prova un atroce rimorso per aver accecato accidentalmente, nel corso di una missione, una cantante di night club. Il legame con Melville, in particolare con "Le Samouraï" e il suo archetipo del killer solitario, è più che un semplice tributo; è una dichiarazione di intenti. Woo riprende il fatalismo esistenziale del cinema francese, la fredda eleganza di un codice d'onore autoimposto che resiste alla corruzione del mondo esterno, ma lo infonde di una passione barocca e di un'intensa spiritualità orientale. Il "suicidio lento" di Jef Costello trova eco nella ricerca di una morte onorevole di Ah Jong (magistralmente interpretato da Chow Yun-fat), che, schiavo del proprio credo e della propria fatalità, cerca nella salvezza altrui la propria inconfessabile assoluzione. Il rimorso non è solo una flebile eco nella sua coscienza, ma una ferita aperta che lo spinge verso un percorso di sacrificio, una sorta di via crucis profana in un mondo senza più dei.

L’uomo cercherà di aiutare la cantante pagandole una rischiosa operazione per ridarle la vista, ma andrà in contro ad un inevitabile destino grazie al tradimento di un amico e ad un poliziotto arguto e zelante che non gli concede tregua. Qui emerge un'altra delle firme autoriali di Woo: la figura del "doppelganger", il riflesso speculare del protagonista nella sua nemesi. L'ispettore Li (Danny Lee), non è un semplice antagonista, ma un'anima gemella, un'altra faccia della stessa medaglia di giustizia e moralità. Entrambi sono uomini di princìpi, idealisti incalliti in un universo di compromessi, costretti dalle circostanze a confrontarsi con i limiti della legge e dell'etica personale. La loro caccia non è un mero inseguimento, ma una danza macabra, un duello cavalleresco tra due uomini che, sebbene su fronti opposti, condividono un profondo senso dell'onore e un'inevitabile solitudine. Il tradimento dell'amico, poi, non è un mero espediente narrativo, ma la deflagrazione di quel codice d'onore che, nel cinema di Woo, è sacro quanto la vita stessa, trasformando la vendetta in una questione di purificazione spirituale.

Interessante questo connubio tra noir e gangster movie, screziato con venature di misticismo criminale (à la Kitano per intenderci). Ma mentre Kitano sonda un nichilismo glaciale e spesso contemplativo, Woo infonde il suo misticismo di un calore quasi religioso, di un'iconografia cattolica che si fonde con simbolismi orientali. Le chiese sventrate dalle sparatorie, le candele accese, le colombe bianche che volano attraverso gli spari: non sono semplici orpelli estetici, ma elementi narrativi che sublimano la violenza, trasformandola in un rito sacrificale. Il sangue versato diventa l'offerta per una redenzione impossibile, la morte violenta una via verso un'altra forma di trascendenza. È un cinema che eleva il criminale a figura tragica, un eroe maledetto che, pur immerso nel peccato, persegue una forma di purezza morale. Questa fusione tra il sacro e il profano, tra il dramma della salvezza e la brutalità della strada, è ciò che rende "The Killer" un'opera così profondamente risonante, ben oltre la sua superficie action.

E comunque una mitragliata di adrenalina dall’inizio alla fine non vi concederà tregua, Woo d’altronde sa come tenere desta l’attenzione dello spettatore, non per niente subito dopo questo film i grandi coccodrilli di Hollywood misero gli occhi su di lui chiamandolo a dirigere negli States. Le sequenze d'azione non sono interruzioni, ma il cuore pulsante del racconto, ogni proiettile, ogni salto in slow-motion, ogni acrobazia balistica è pensata per comunicare lo stato d'animo dei personaggi e l'ineluttabilità del loro destino. Il "gun fu" di Woo, con la sua enfasi sui movimenti fluidi, sui ralenti coreografici e sull'uso simultaneo di armi da fuoco in entrambe le mani, ha creato un nuovo paradigma nel cinema d'azione, influenzando generazioni di registi, da Quentin Tarantino (che ne è un dichiarato ammiratore) ai Wachowski per "Matrix", fino a intere correnti di videogiochi e produzioni televisive. Il successo di "The Killer" in Occidente fu un fenomeno di culto prima di diventare mainstream, dimostrando come la sua retorica visiva e il suo romanticismo esasperato fossero universali, capaci di travalicare le barriere culturali e linguistiche. Era inevitabile che Hollywood lo volesse, desiderosa di replicare quella scarica di pura, inimitabile energia cinematografica.

Un film che vola lasciando un intenso retrogusto di polvere da sparo e incenso. Un'opera che non si limita a divertire, ma che scava nell'anima, interrogando il prezzo della violenza e la possibilità della redenzione in un mondo corrotto. È il testamento di un regista che ha osato trasformare la brutalità in poesia, il caos in armonia, la morte in un'affermazione di vita e di dignità, cementando per sempre il suo posto nell'Olimpo dei grandi autori del cinema d'azione e non solo.

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