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Il Discorso del Re

2010

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Regista

Una regia colta e netta erige un emozionante monumento filmico a cui ci si abbandona con trasporto, con totale devozione di spettatore, con l’animo trasognato di chi sa di presenziare ad una grande opera dell’ingegno umano. Tom Hooper, con una maestria che trascende la semplice narrazione biografica, non si limita a ritrarre un segmento storico, ma plasma una vera e propria epica dell'introspezione. La sua macchina da presa, spesso ravvicinata, quasi asfissiante, si fa specchio dell'angoscia interiore di Bertie, rivelando un paesaggio emotivo più che un mero scenario regale. L'illuminazione dimessa e la palette cromatica sobria contribuiscono a creare un'atmosfera di intimo dramma, quasi fosse una tela fiamminga in movimento, dove la luce fatica a penetrare l'ombra della difficoltà personale.

Questo film di Hooper è esattamente così: emoziona attraverso un piccolo movimento della Storia, una lieve imperfezione che portò un’intera nazione a ricompattarsi davanti allo spettro incombente della Germania nazista. La balbuzie di Giorgio VI, lungi dall'essere un mero difetto fisico, si trasforma in una metafora potente dell'incertezza e della vulnerabilità che pervadevano l'Europa dell'epoca, sul baratro di un conflitto di proporzioni inaudite. Il difetto individuale si eleva a simbolo collettivo, e la sua risoluzione diviene promessa di una possibile resilienza nazionale. È una narrazione che, pur radicata nel particolare, aspira all'universale, toccando corde profondamente umane sul coraggio di affrontare le proprie paure più recondite e la responsabilità di una nazione.

La vicenda narrata è quella di Bertie, secondogenito del Re d’Inghilterra Giorgio V, e duca di York. L’uomo per un difetto logopedico congenito fatica a ritagliarsi un’immagine pubblica e vive all’ombra del fratello, destinato a divenire re. Colin Firth offre una performance di rara intensità, non limitandosi a mimare un disturbo del linguaggio, ma incarnandone la sofferenza psicologica, l'umiliazione silente che corrode la dignità di un uomo destinato al trono ma imprigionato dalla propria voce. La sua interpretazione è un capolavoro di sottrazione e al contempo di esplosione emotiva, capace di comunicare l'indicibile tormento attraverso gli spasmi del volto e lo sguardo afflitto. È una recitazione che ricorda la forza del "metodo" attoriale nella sua capacità di far emergere la verità interiore del personaggio, rendendo palpabile il peso della corona prima ancora che questa si posasse sulla sua testa.

Ma l’amore della moglie e l’eccezionale maestria di un logopedista australiano ridaranno una speranza all’uomo che succederà al padre sul trono con il nome di Giorgio VI (padre della futura regina Elisabetta II). Helena Bonham Carter, nei panni della futura Regina Madre Elizabeth, conferisce una statura calma e un supporto incrollabile, fungendo da pilastro emotivo senza mai eclissare la lotta del marito. Geoffrey Rush, nel ruolo di Lionel Logue, è un vero e proprio catalizzatore narrativo: il suo approccio poco ortodosso, quasi socratico, e la sua capacità di vedere oltre il monarca la persona, trasformano la terapia in un duello dialettico, un confronto intellettuale e umano che sfida le rigide convenzioni di corte. Il loro rapporto, profondamente simbiotico, trascende i confini sociali e gerarchici, rivelando la forza inaspettata di un'amicizia nata dalla necessità e forgiata dalla fiducia reciproca. Non è solo una terapia per la balbuzie, ma un viaggio di scoperta di sé, un vero e proprio rito di passaggio che scardina le impalcature di un'educazione regale per lasciare emergere l'uomo autentico, con tutte le sue fragilità e la sua forza interiore.

Bertie, grazie ad una straordinaria forza di volontà unita agli insegnamenti del logopedista, terrà un discorso entusiasmante alla nazione sull’orlo del baratro della seconda guerra mondiale, un monologo capace di rinsaldare un intero popolo dietro il vessillo del proprio Re. Il momento del discorso finale non è solo l'apice drammatico della narrazione, ma un trionfo della comunicazione intesa nella sua accezione più pura: non mera oratoria, ma connessione profonda, empatico riconoscimento della paura e dell'incertezza collettiva. È un atto di "pathos" autentico, non retorico, che trova la sua forza proprio nella vulnerabilità esibita dal sovrano. Il film qui fa un passo oltre la biografia, immergendosi nella semiotica del potere: una voce tremante ma sincera si rivela più potente di mille proclami stentorei, poiché risuona con l'ansia del popolo, trasformando la debolezza in una forma inattesa di forza e leadership. La potenza del suono registrato, così cruciale in un'epoca di radiofonia di massa, diventa lo strumento attraverso cui la monarchia inglese riconsolida il suo legame con la gente comune, forgiando un'identità nazionale unita di fronte alla minaccia esterna.

Un’opera che gioca con sagacia sull’unione di Logos e Pathos, sulla dicotomia tra detto e non detto, sul potere indicibile della comunicazione, su un episodio marginale che ha fatto la storia di un Paese. Il Logos qui è la struttura logica della terapia di Logue, l'ingegneria del linguaggio, la disciplina che cerca di domare il caos fonatorio. Ma è il Pathos, il sentimento più viscerale, a sbloccare il Re: la fiducia nel suo terapeuta, l'amore per la sua famiglia, la consapevolezza del suo dovere. La narrazione di Hooper è un'esemplificazione sublime di come il micro-evento personale possa riflettersi e influenzare il macro-contesto storico. Non è solo la storia di un re che impara a parlare, ma la metafora di una nazione che ritrova la propria voce e la propria determinazione. In un'epoca in cui la politica spesso degenera in spettacolo vuoto, "Il Discorso del Re" ci rammenta l'eterno, ineffabile valore di una parola autentica, pronunciata con coraggio, capace di illuminare il buio e di unire gli animi. È un film che, pur radicato in un preciso contesto storico, dialoga con l'attualità, interrogandoci sul ruolo della leadership e sul potere trasformativo della vulnerabilità nel definire la resilienza umana.

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