La Signora di Shangai
1947
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Regista
Welles è in un periodo creativo particolarmente fervido quando la Columbia decide di affidargli la sua star di punta, Rita Hayworth, per il suo prossimo lavoro. Un fervore, va detto, che si scontrava e si scontra puntualmente con la logica produttiva di un’industria che non aveva mai realmente compreso la sua visione. Dopo l'atroce mutilazione de L'Orgoglio degli Amberson e la sempre più fragile libertà artistica concessagli, Welles arrivava alla Columbia con una reputazione di enfant terrible ma anche con un genio innegabile, un nome di richiamo per via del suo controverso capolavoro d'esordio, Quarto Potere.
Il problema è che il genio di Orson Welles difficilmente collima con le mire commerciali dei produttori hollywoodiani e la riprova è questo splendido film che fu tenuto colpevolmente fermo per 2 anni per timore di un danno d’immagine per Rita Hayworth, la gallina dalle uova d’oro della Columbia in quegli anni. Un timore che si concretizzò nell’imperdonabile decisione di amputare il film e poi, come accennato, di confinarlo per ben due anni nel limbo della distribuzione, una punizione inflitta a un’opera che osava smantellare l'aura patinata di Hayworth, la Venere di Technicolor che il pubblico americano aveva imparato ad amare in technicolor. Il taglio netto della sua iconica chioma ramata, sostituita da un biondo platino dal piglio quasi mortifero e una sensualità più algida e cerebrale, fu solo il più evidente dei sacrilegi agli occhi dei magnati dello studio, incapaci di scorgere nella trasformazione una vertiginosa espressione artistica piuttosto che un esiziale attentato al marchio registrato.
Tratto da un romanzo di Sherwood King intitolato “Se muoio prima di svegliarmi” (If I Die Before I Wake) i cui diritti vennero acquistati dal produttore William Castle per la misera cifra di 600 dollari, è la storia di un marinaio irlandese che scorta un avvocato, sua moglie e il suo losco socio d’affari da San Francisco ad Acapulco in yacht. Dal modesto substrato letterario di King, Welles plasma non una semplice trasposizione, ma un’autentica metamorfosi, infondendo nel materiale originale un'inquietudine e una profondità psicologica assenti nella prosa di genere. La vicenda del giovane e ingenuo marinaio Michael O'Hara, interpretato dallo stesso Welles con un'autoironia venata di malinconia, diviene così il pretesto per un viaggio non solo geografico, ma morale: un'odissea che lo trascina dalle rassicuranti banchine di San Francisco ai meandri oscuri dell'anima umana, a bordo di un yacht che si rivela ben presto un guscio claustrofobico, una prigione galleggiante per anime alla deriva.
Presto l’uomo si accorgerà di essere capitato in un convitto di belve dove la più temibile e perfida delle fiere è la donna. Il "convitto di belve" si palesa come una galleria di personaggi grotteschi e predatori, una società in miniatura dove l'avidità, la menzogna e la perversione sessuale sono le uniche valute di scambio. E al centro di questa giungla urbana, o meglio marittima, c'è Elsa Bannister, la donna fatale per eccellenza, ma una femme fatale wellesiana, dunque multiforme e sfuggente. Non è solo la seduttrice che tenterà con ogni mezzo di trascinarlo in una spirale di veleno, ma è essa stessa vittima e carnefice di un sistema di relazioni malato, un ingranaggio di una macchina inesorabile di cui il marito, il potente e paralitico avvocato Arthur Bannister (interpretato con glaciale maestria da Everett Sloane), è il sadico e onnisciente burattinaio.
Un veleno che non è solo quello metaforico della menzogna e del tradimento, ma quasi tangibile nella sua pervasività, corrompendo ogni interazione, ogni gesto di presunta innocenza. La maestria di Welles sta proprio nel rendere palpabile questa corruzione latente, trasformando la narrazione in un labirinto di specchi e inganni, dove ogni riflesso nasconde una verità distorta e ogni rivelazione conduce a un ulteriore strato di ambiguità. La giustizia è una farsa, l’amore un miraggio e l’innocenza una vulnerabilità da sfruttare.
Un’opera al nero che sarebbe davvero riduttivo classificare come noir. È vero, La Signora di Shangai attinge a piene mani dall'estetica e dalle convenzioni del film noir – il chiaroscuro espressivo di Russell Metty, la trama intricata, la voce narrante in medias res, la figura archetipica della femme fatale. Ma Welles, con la sua inconfondibile impronta autoriale, disgrega e ricompone questi elementi in una decostruzione postmoderna del genere, anticipando di decenni il dibattito sulla natura del cinema. Non si limita a raccontare una storia, ma ne esamina la costruzione, ponendo l'accento sulla fragilità della verità e sull'inganno insito nella percezione. La sua è una meditazione sulla giustizia e sull'illusione, un'esplorazione dell'abisso che si spalanca tra l'apparenza e la realtà, temi cari al regista sin dai tempi di Quarto Potere e che culmineranno nel suo enigmatico F for Fake.
Si tratta di un’opera complessa, sublime nei suoi verminosi cunicoli semantici che si diramano dal suo centro per irretire uno spettatore quasi catatonico ed in totale balia della cinepresa e dell’ingegno di Welles. L’apice di questa vertiginosa ermeneutica visiva e narrativa si raggiunge nella sequenza finale, quella nella sala degli specchi di un luna park abbandonato: un vertiginoso balletto di riflessi e frammenti, dove le identità si moltiplicano e si frantumano, le silhouette si distorcono e la realtà si dissolve in un caleidoscopio di inganni ottici. È un momento di cinema puro, di abbagliante virtuosismo, ma anche una metafora acuta della psiche distorta dei personaggi e della stessa disillusione di Welles nei confronti di un mondo – e di un sistema hollywoodiano – in cui l’immagine conta più della sostanza, e la verità è un concetto malleabile. Il celebre discorso finale di O’Hara, sul mondo come luogo di squali e lupi, e sul bisogno di allontanarsi prima di essere divorati, risuona come un amaro epitaffio per l’innocenza perduta, un monito sulla solitudine intrinseca dell’uomo e sulla futilità di ogni tentativo di redenzione in un universo morale così degradato.
Welles, qui al suo terzo film, dimostra una padronanza stilistica già completa, elevando il linguaggio cinematografico a strumento di indagine filosofica. Ogni inquadratura è calibrata per disorientare, ogni taglio per rivelare l'artificiosità della costruzione. Il suo uso audace del deep focus, non più per esaltare l'oggettività come in Quarto Potere, ma per sottolineare la profondità ingannevole degli spazi, e l'acustica distorta, che amplifica il senso di paranoia e claustrofobia, sono tutti elementi di una cifra stilistica che va ben oltre la semplice messa in scena. La Signora di Shangai non è solo un noir che si spinge oltre i suoi confini, ma un'opera esistenzialista, una parabola sulla corruzione dell'anima e sulla natura illusoria della giustizia e dell'amore. È la prova lampante di come il genio, persino quando ostacolato e osteggiato dalla miopia commerciale, riesca a plasmare qualcosa di indimenticabile, un monito sulla fragilità dei sogni americani e sull'inesorabile decadenza che si cela dietro le loro facciate più lucide. Un capolavoro riscoperto, che continua a brillare di una luce oscura e inconfondibile.
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