The Lighthouse
2019
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Regista
Per comprendere appieno The Lighthouse bisogna compiere un'operazione critica fondamentale: smettere di guardarlo come un film e iniziare a leggerlo come puro teatro catturato su pellicola. Robert Eggers non si limita a citare il cinema del passato; egli attinge direttamente alla fonte del dramma occidentale, costruendo un'opera che rispetta le unità aristoteliche di luogo e tempo con un rigore quasi soffocante. L'isola non è una location, è un palcoscenico. Il faro non è un edificio, è un monolite scenografico. E i due protagonisti non sono semplici personaggi, ma maschere tragiche impegnate in un duello dialettico che avrebbe fatto la gioia di un drammaturgo del Novecento.
Sul piano puramente tecnico, ogni scelta filmica di Eggers è, in realtà, una scelta di mise-en-scène teatrale. Il Proscenio Quadrato: Il formato 1.19:1 non è un vezzo. È l'imposizione di un proscenio che incornicia e imprigiona. Lo spazio scenico è volutamente limitato, claustrofobico, costringendo i due corpi e le loro psicologie a collidere costantemente. Non c'è via di fuga, né per loro né per il nostro sguardo. La Luce come Personaggio: Il bianco e nero, con i suoi contrasti violenti che scolpiscono i volti come maschere di legno, non è un filtro, ma un disegno luci espressionista. Funziona come un "occhio di bue" teatrale, che isola un monologo, esaspera un'ombra, trasforma una cena a lume di candela in un memento mori caravaggesco. La Luce del faro, l'oggetto del desiderio, è il vero "deus ex machina", un riflettore divino e folle che dirige l'azione. Il sound design oppressivo—la sirena, il vento, le onde—è la partitura musicale di questa pièce. È una "musica concreta" che detta il ritmo emotivo, un rumore bianco che diventa il suono stesso della follia, il ronzio costante del vuoto esistenziale che i due uomini cercano di riempire urlando.
Il testo e la dinamica tra i personaggi sono un distillato di grande drammaturgia. Se la struttura richiama Henrik Ibsen—due uomini intrappolati in uno spazio chiuso, perseguitati dai segreti e dai fantasmi del proprio passato che emergono fino a distruggere il presente—l'anima dell'opera è inequivocabilmente quella di Samuel Beckett. The Lighthouse è, a tutti gli effetti, un Aspettando Godot ubriaco di sale e disperazione. Wake e Winslow sono Vladimir ed Estragon, o forse ancora di più Hamm e Clov di Finale di Partita: un padrone e un servo legati da un rapporto di reciproca dipendenza e sadismo. Passano il tempo con routine assurde, dialoghi circolari, litigi furibondi e riappacificazioni grottesche.
La loro interazione è una dialettica hegeliana della follia con una tesi che è mondo di Wake, fatto di superstizione marinaresca, miti pagani e un'autorità patriarcale e divina. E un'antitesi: il mondo di Winslow, che tenta di essere pragmatico, razionale, ancorato a un passato di fatica e colpa che vorrebbe cancellare. La Sintesi è nell'alcol, la dimensione lisergica in cui le due coscienze si fondono, i ruoli si confondono e la loro opposizione si risolve non in una comprensione superiore, ma in un caos psicotico condiviso.
A livello ontologico, il film ci mostra un universo dove non esiste nient'altro al di fuori di loro due. Il mondo esterno è un'ipotesi, un ricordo sbiadito. La sola realtà è la loro contrapposizione dialogica. Essi esistono solo in funzione l'uno dell'altro. La loro essenza è definita dalla negazione dell'altro. Entrambi arrivano sull'isola già intaccati dai propri personali orrori. Winslow fugge da un omicidio e da un'identità rubata. Wake è un tiranno solitario che ha trasformato la sua follia in un regno. L'isola non li fa impazzire; semplicemente, funziona come un vuoto pneumatico che risucchia via ogni maschera sociale, ogni sovrastruttura, lasciando le loro anime nude e già in putrefazione. La loro lotta non è per la sopravvivenza fisica, ma per imporre la propria versione della realtà sull'altro, per non essere annientati dal silenzio.
The Lighthouse è un'opera magistrale perché comprende che il cinema, come il teatro, nella sua forma più pura, è questo: due occhi, una voce, uno spazio chiuso e l'infinita, terribile complessità dell'animo umano.
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