
Il Leone d'Inverno
1968
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Regista
Un vivido spaccato di storia nobilitato da un copione totalmente devoto alla sua ispirazione teatrale (un play di Goldman che ne cura anche la riduzione cinematografica attraverso una calibrata sceneggiatura). James Goldman, nel distillare il suo testo per lo schermo, non si è limitato a una pedissequa trasposizione, ma ha saputo esaltare la forza intrinseca del dialogo, trasformando ogni scambio in una stoccata affilata, ogni battuta in una freccia avvelenata. È una danza macabra di parole, dove il silenzio è solo una breve tregua prima del prossimo assalto. Questo approccio è ciò che eleva "Il Leone d'Inverno" ben oltre la semplice ricostruzione storica, infondendogli una teatralità intrinseca che non si sente mai forzata, ma piuttosto come la naturale espressione di personaggi giganteschi, costretti entro le mura di un'aristocratica prigione familiare.
Anthony Harvey, regista davvero poco prolifico e il cui climax artistico viene raggiunto proprio in quest’opera, gira con devozione e ha l’indubbio merito di lascia trasparire le possenti emozioni umane che nascono dagli intrighi di corte e dalla guerra per la Corona. La sua regia, pur rispettando la natura cameristica dell'opera, è tutt'altro che statica. Harvey utilizza primi piani incisivi per catturare le espressioni mutevoli dei protagonisti, sguardi che celano segreti e promesse di vendetta, e movimenti di macchina che amplificano la tensione claustrofobica della situazione. Il film diventa così una sorta di "Fight Club" ante litteram per la mente e per l'anima, dove i pugni sono sostituiti da sentenze lapidarie e le ferite sono inferte con la precisione chirurgica di un sarcasmo tagliente. Harvey riesce a trasformare un'unica, sontuosa location – lo Château de Chinon – in un campo di battaglia psicologico, dove ogni angolo, ogni ombra, ogni dettaglio del sontuoso arredamento, contribuisce a sottolineare la prigionia dorata e la pressione implacabile che grava su questi reali. È un tour de force registico che smentisce la limitata filmografia del suo autore, dimostrando una padronanza narrativa sorprendente.
L’azione, il luogo e il tempo del film sono focalizzati in un’unica ambientazione: una riunione tra Enrico il Plantageneto, re d’Inghilterra con il nome di Henry II, sua moglie Eleonora, e più tardi i loro 3 figli eredi al trono. La riunione si tiene in una località francese e dovrà stabilire una volta per tutti il nome del successore al trono. Questo Natale del 1183 diventa il palcoscenico per un'opera shakesperiana di ambizione e disillusione, un microcosmo che riflette le più grandi lotte per il potere e la sopravvivenza. La scelta di concentrare l'intero dramma in un lasso di tempo così breve e in un unico luogo amplifica l'intensità del confronto, costringendo lo spettatore a immergersi completamente nelle dinamiche perverse di questa famiglia reale disfunzionale. È un "Who's Afraid of Virginia Woolf?" medievale, con in gioco non solo il matrimonio e la psiche, ma intere corone e regni.
In questo frangente critico si scatenano furibonde le passioni e gli intrighi per l’ambito trono. Ma non è solo il trono a essere in gioco; è anche l'amore, l'odio, il perdono e la vendetta tra individui che, pur appartenendo alla stirpe più alta, sono irrevocabilmente legati da vincoli di sangue e da un passato di tradimenti reciproci. La brillantezza del copione risiede proprio nella sua capacità di rendere universali questi conflitti, trascendendo il contesto storico per parlare di dinamiche familiari eterne: il figlio prediletto contro il figlio ribelle, la madre che manipola, il padre che tenta di mantenere il controllo su una prole ingovernabile. Il film è una lezione magistrale su come il potere corrompa e come l'amore, anche il più profondo, possa essere contaminato dal desiderio di dominio.
Splendide le caratterizzazioni e l’interpretazione in particolare di Peter O’Toole nel ruolo del dispotico Monarca. O'Toole, che aveva già sfiorato la perfezione con il suo Lawrence, qui incarna un Enrico II monumentale, un leone ruggente e ferito, capace di tenere testa a chiunque, ma inesorabilmente tormentato dalla sua stessa discendenza. Il suo Enrico è un re filosofo, un padre violento, un marito ancora innamorato nonostante i lunghi anni di prigionia inflitti alla moglie. Al suo fianco, una Katharine Hepburn in stato di grazia, che porta in scena Eleonora d'Aquitania non come una figura storica rigida, ma come una donna di straordinaria intelligenza, arguzia e resilienza, la cui prigionia fisica non ha intaccato la sua libertà mentale. Il loro duetto è una sinfonia di recitazione, un balletto di minacce e promesse infrante che raramente si è visto sul grande schermo. La chimica tra O'Toole e Hepburn è palpabile, un misto di rispetto professionale e di una certa, quasi tangibile, animosità che alimenta ogni scena con una scintilla elettrica. È il ritratto di un amore-odio che trascende la politica e diventa un'analisi profonda della relazione umana.
Da segnalare il debutto cinematografico di Anthony Hopkins, che interpreta Riccardo Cuor di Leone con una foga giovanile e una presenza scenica che già preannunciano la grandezza futura, accanto a un Timothy Dalton, anch'egli all'esordio, nei panni del più giovane Filippo II di Francia, un ragazzo-re che si destreggia con astuzia tra giganti. Il cast di supporto non è da meno, con John Castle e Nigel Terry che completano il terzetto di fratelli, ognuno a suo modo una pedina nel gioco di scacchi dinastico. La regia di Harvey riesce a dare spazio a ogni personaggio, rendendoli tutti credibili e complessi, nessuna semplice macchietta storica.
Un’opera di una forza dialettica talmente devastante che trovò delle difficoltà ad essere compresa da una certa parte della critica troppo legata a vincoli manieristici da comprenderne il dirompente retaggio. Questa critica, forse abituata a drammi storici più lineari e didascalici, o a melodrammi storicizzanti, non seppe cogliere la modernità del linguaggio di Goldman e la sfrontatezza psicologica con cui il film si addentrava nelle pieghe più oscure dell'animo umano. "Il Leone d'Inverno" non è un affresco storico nel senso tradizionale del termine, non si preoccupa di ricreare battaglie epiche o processioni fastose. La sua battaglia si svolge nelle menti e nelle bocche dei personaggi, in una guerra verbale che è infinitamente più avvincente e brutale di qualsiasi scontro campale. È un film che, nel suo porsi come un dramma da camera ad alta tensione, rompe con le convenzioni dell'epica storica per offrire un ritratto intimo e dolorosamente vero di una famiglia reale che è allo stesso tempo una metafora universale del potere, dell'ambizione e della complessa, spesso distruttiva, natura dell'amore. Un classico senza tempo, la cui risonanza non accenna a diminuire.
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