
Piccole Volpi
1941
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Regista
Un William Wyler stilisticamente inappuntabile dirige questo raffinato melodramma familiare ambientato nel profondo Sud di un America sulle soglie del novecento. La sua è una regia che non ammette sbavature, dove ogni inquadratura è cesellata con la precisione di un orafo e la composizione visiva, spesso in un profondo campo che ricorda le esplorazioni tecniche di Orson Welles in Quarto Potere dello stesso periodo, diviene essa stessa veicolo di narrazione. Questa meticolosa attenzione al dettaglio e alla stratificazione spaziale amplifica il senso di claustrofobia e l'intricata rete di relazioni tossiche che definiscono il nucleo drammatico del film.
Wyler rimane formalmente grato al dramma teatrale di Lillian Hellman da cui è tratta l’opera, ma al contempo lo trasfigura nella “sua” creatura cinematografica dove le ambientazioni e la ricostruzione storica raggiungono le soglie della perfezione estetica. La genialità del regista risiede nel trasformare la rigidità del palcoscenico in una tela cinematografica vibrante, sfruttando il linguaggio della macchina da presa – i movimenti lenti e inesorabili, la potente illuminazione di Gregg Toland che scolpisce volti e ambienti, i primi piani che svelano le crepe sotto la superficie patinata – per penetrare l'anima dei personaggi e l'atmosfera opprimente. È un'operazione che eleva il dramma da semplice rappresentazione a studio viscerale sulla corruzione e l'avidità umana, laddove la grandezza delle dimore decadenti del Sud diventa il riflesso esteriore di un'anima interiore in putrefazione. La stessa Hellman collaborò alla sceneggiatura, un processo notoriamente travagliato ma che portò a un adattamento di rara fedeltà tematica, pur con le libertà necessarie per la trasposizione mediale.
La storia è incentrata sul clan famigliare degli Hubbard in cui tre fratelli (due uomini e una donna) lottano per il potere e per il denaro. Questa non è solo una saga familiare, ma un implacabile ritratto dell'ascesa di una borghesia mercantile senza scrupoli, pronta a sacrificare ogni legame affettivo sull'altare del profitto. Il film si inserisce magistralmente nel solco di quella critica sociale che, nel periodo tra le due guerre mondiali, iniziava a smascherare le patologie del capitalismo selvaggio, anticipando forse le amarezze del New Deal e le disillusioni di un'America in rapida trasformazione. Gli Hubbard non sono semplici avidi, ma emblemi di una transizione epocale, quella tra l'aristocrazia terriera del Vecchio Sud, moribonda e idealizzata, e l'industrializzazione senza etica che si preannunciava.
La lotta è senza esclusioni di colpi e coinvolgerà gli affetti famigliari di ciascuno di loro non risparmiandone le implicazioni tragiche. È un balletto macabro di calcoli e manipolazioni, in cui l'amore e la lealtà sono valute deboli, facilmente svalutabili o moneta di scambio per l'affermazione economica. La brutalità dei personaggi è tanto più agghiacciante in quanto mascherata da una patina di rispettabilità e buone maniere del Sud, un contrasto stridente che Wyler esalta con maestria. La violenza non è mai fisica nel senso più palese, ma si annida nei silenzi, negli sguardi gelidi, nelle parole taglienti che fungono da lame affilate, corrodendo i legami dall'interno. Questa implacabilità ricorda a tratti le tragedie greche, dove il fato ineluttabile è sostituito dalla brama umana, o le narrazioni naturaliste di fine ‘800, che esploravano le forze cieche dell’eredità e dell’ambiente sul destino degli individui.
Immensa la prova artistica di Bette Davis nei panni di Regina, un talento recitativo che trova ben pochi riscontri e rimane ganglio cardinale dell’intero impianto narrativo. La sua Regina Giddens è una figura shakesperiana nella sua grandezza malvagia, una Medea del profondo Sud, calcolatrice e di una freddezza glaciale. Davis non si limita a interpretare un personaggio, lo incarna, lo vive, lo rende tangibile con una recitazione che è un tour de force di controllo e intensità. I suoi occhi, spesso illuminati da una luce sinistra, diventano finestre sull'abisso di un'anima corrotta, capaci di esprimere disprezzo, calcolo e una ferocia inaudita con una sottigliezza quasi impercettibile. La sua postura rigida, il suo modo di incedere, persino il suo sorriso forzato, contribuiscono a dipingere il ritratto di una donna intrappolata nella sua stessa ambizione, destinata a regnare su un impero di solitudine e risentimento. Il suo legame artistico con Wyler, che la diresse in capolavori come Figlia del vento e Ombre malesi, raggiunge qui uno dei suoi apici più oscuri e affascinanti, consacrando Regina come una delle più iconiche "villain" della storia del cinema, un monito eterno alla natura distruttiva dell'avidità umana.
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