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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

The Lobster

2015

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In un universo parallelo non troppo dissimile dal nostro, Franz Kafka e Luis Buñuel avrebbero potuto collaborare alla stesura di un manuale per agenzie matrimoniali. Il risultato, epurato da ogni slancio surrealista o slittamento onirico e condensato in un'asettica prosa da regolamento condominiale, somiglierebbe molto da vicino al mondo di "The Lobster". Il capolavoro di Yorgos Lanthimos non è semplicemente un film; è una diagnosi, una spietata dissezione anatomica delle nostre nevrosi relazionali, eseguita con la precisione di un chirurgo che ha smarrito ogni traccia di empatia. È l'apologo definitivo per l'era di Tinder, un'allegoria così tagliente da far sanguinare.

La premessa, ormai celebre, è un colpo di genio nella sua brutale semplicità: in una società distopica e imprecisata, essere single è un'infrazione, una condizione patologica da curare. I "solitari" vengono prelevati e condotti in un Hotel isolato, una sorta di clinica di riabilitazione sentimentale, dove hanno 45 giorni di tempo per trovare un'anima gemella tra gli altri ospiti. In caso di fallimento, la pena non è la morte, ma qualcosa di forse più umiliante e kafkiano: la trasformazione in un animale a propria scelta. Il nostro protagonista, David (un Colin Farrell magnificamente appesantito e dimesso, lontano anni luce da ogni divismo), sceglie di diventare un'aragosta. Le ragioni sono pragmatiche: vive a lungo, è fertile per tutta la vita e, confessa con un candore disarmante, "ama il mare".

È qui che Lanthimos, alfiere di quella che è stata battezzata la "Greek Weird Wave" – un'ondata di cinema perturbante nata dalle ceneri della crisi economica greca, che usa l'assurdo per commentare il collasso delle strutture sociali e familiari – orchestra il suo primo, magistrale atto. L'Hotel non è una prigione tetra, ma un purgatorio della medietà. L'arredamento è anonimo, i vestiti uniformi, le giornate scandite da rituali grotteschi: colazioni silenziose, balli impacciati, e battute di caccia nei boschi circostanti, dove i single fuggiaschi (i "Solitari") vengono braccati con fucili caricati a tranquillanti. Ogni Solitario catturato regala un giorno di permanenza in più. La sopravvivenza, quindi, si basa sulla soppressione dell'altro, sulla negazione della sua stessa condizione di reietto.

Il linguaggio del film è la sua arma più affilata. I dialoghi, scritti da Lanthimos con il sodale Efthymis Filippou, sono un capolavoro di anti-naturalismo. I personaggi parlano con un tono piatto, monocorde, una sorta di Sprechgesang emotivo che svuota le parole di ogni significato. Le conversazioni sembrano generate da un algoritmo difettoso che tenta di simulare l'interazione umana, basandosi su un manuale di istruzioni frainteso. È il teatro dell'assurdo di Ionesco che incontra il laconismo di un Bresson, privato però di ogni trascendenza spirituale. Questa scelta stilistica non è un vezzo, ma il cuore pulsante della critica del film: in un mondo dove la coppia è un obbligo di legge, l'amore diventa una performance burocratica. La compatibilità non si fonda sull'affinità elettiva, ma su una "caratteristica distintiva" condivisa: una zoppia, una miopia, una tendenza alle epistassi spontanee, un'agghiacciante mancanza di sentimenti. L'amore è ridotto a un'equazione, a una casella da spuntare su un modulo.

La satira di Lanthimos è feroce perché mima, portandole al parossismo, le nostre stesse convenzioni sociali. Quante volte abbiamo sentito dire "gli opposti si attraggono" o, al contrario, "chi si somiglia si piglia"? Quante volte le app di dating ci hanno proposto partner basati su algoritmi di compatibilità superficiali? David, per sopravvivere, finge di essere anaffettivo come la donna più spietata dell'Hotel, in una messinscena che ricorda le contorte strategie di sopravvivenza nelle corti del '700. La relazione diventa un contratto sociale basato sulla menzogna, un'imitazione della normalità per sfuggire a una punizione.

Ma è nel secondo atto che Lanthimos compie il suo scacco matto, dimostrando una lucidità intellettuale rara. David riesce a fuggire dall'Hotel e si unisce ai Solitari, la resistenza che vive nei boschi. Si potrebbe pensare che qui, finalmente, trionfi l'individualismo, la libertà. E invece no. Il mondo dei Solitari è speculare e altrettanto totalitario a quello dell'Hotel. Se lì la coppia è obbligatoria, qui è severamente proibita. Ogni contatto fisico è bandito, ogni accenno di flirt è punito con mutilazioni grottesche. I ribelli hanno creato un sistema altrettanto rigido e disumano di quello da cui sono fuggiti. Non c'è via di scampo dalla tirannia dell'ideologia, sia essa quella della coppia a tutti i costi o quella della solitudine forzata. La critica di Lanthimos non è contro il matrimonio, ma contro ogni sistema che pretenda di dettare una formula universale per la felicità e l'esistenza umana, trasformando l'individuo in un mero ingranaggio. In questo, il film si eleva a potente commentario politico senza mai menzionare la politica, un po' come "L'invasione degli ultracorpi" di Don Siegel fungeva da metafora della paranoia maccartista.

È in questo contesto di doppia oppressione che sboccia, paradossalmente, l'unica, vera storia d'amore del film: quella tra David e una donna miope (una straordinaria Rachel Weisz, che è anche la voce narrante, distaccata e quasi documentaristica). Il loro amore è clandestino, un atto di pura sovversione. Comunicano attraverso un linguaggio dei segni segreto, una grammatica dell'intimità costruita mattone su mattone contro la prosa mortifera dei due regimi. La loro "caratteristica distintiva" condivisa, la miopia, diventa un tenero simbolo della loro visione del mondo, diversa, imperfetta, e proprio per questo autentica. Ma in un mondo che non ammette sfumature, la loro anomalia non può essere tollerata. Quando la leader dei Solitari (una Léa Seydoux glaciale) scopre la loro relazione, punisce la donna accecandola, distruggendo così la loro "compatibilità".

E arriviamo al finale, uno dei più potenti, ambigui e discussi del cinema recente. In una tavola calda, ultimo avamposto di una civiltà quasi dimenticata, David si siede al tavolo con la sua amata, ormai cieca. Per ristabilire la loro simmetria, per poterla amare secondo le regole contorte che ha interiorizzato, decide di accecarsi a sua volta. Lo vediamo nel bagno, con un coltello da bistecca in mano. L'inquadratura finale, lunga, estenuante, è sul volto di lei, che attende al tavolo. Non sapremo mai se David compirà il gesto. L'ambiguità è la chiosa perfetta. L'atto di accecarsi sarebbe il sacrificio d'amore definitivo o la capitolazione finale alla logica folle del sistema? L'amore, per esistere, deve davvero mutilare una parte di noi? Lanthimos non offre risposte, ma lascia che la domanda ci scavi dentro, come una scheggia di vetro nell'occhio.

"The Lobster" è un'opera che trascende il suo tempo pur essendone un prodotto perfetto. È una favola nera che riecheggia la precisione geometrica e l'inquietudine metafisica di un quadro di De Chirico, la logica implacabile di un incubo di Kafka e la critica alle istituzioni sociali di un Buñuel. Lanthimos costruisce un'architettura visiva e narrativa impeccabile, dove la fotografia fredda e desaturata di Thimios Bakatakis e le musiche classiche usate in modo straniante (da Beethoven a Stravinskij) contribuiscono a creare un'atmosfera di siderale alienazione. È un film che fa ridere a denti stretti, per poi farci sentire in colpa per aver riso. È un'esperienza cinematografica essenziale, un doloroso e brillante specchio che ci mostra il volto assurdo e terribile della nostra coazione a conformarci. E ci chiede, senza mezzi termini: quale animale scegliereste di diventare? E, soprattutto, perché?

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