L'uomo dal braccio d'oro
1955
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Regista
Per comprendere L'uomo dal braccio d'oro (1955) bisogna prima di tutto afferrare il suo contesto, che è un atto di guerra culturale. Otto Preminger, che aveva già sfidato la censura con La luna è blu, decise di affrontare l'argomento più proibito di Hollywood: la dipendenza dall'eroina. Il Codice di Produzione (il Codice Hays), che governava la morale dello schermo americano, vietava esplicitamente qualsiasi rappresentazione del traffico o dell'uso di narcotici. Preminger, con una mossa calcolata, girò e distribuì il film senza il visto censura, forte del sostegno della United Artists. Fu un colpo mortale al cuore del Codice, un evento che costrinse il cinema americano a entrare, scalciando, nell'età adulta. Il film stesso è un documento di questa battaglia: un'opera cruda, sbilanciata, a tratti melodrammatica, ma assolutamente necessaria, che utilizza il genere del "social problem film" per mascherare una tragedia urbana di proporzioni quasi greche.
Tutto l'impianto estetico del film è progettato per destabilizzare. I titoli di testa di Saul Bass sono già leggenda, un saggio di grafica in movimento che definisce il tono dell'intera opera. Un braccio stilizzato, nero, spezzato in segmenti angolari, si contorce su uno sfondo uniforme. È il logo della dipendenza, un'icona di dolore e frattura che anticipa la condizione del protagonista. Subito dopo, la colonna sonora. Elmer Bernstein firma uno spartito che è una rivoluzione. Al posto degli archi lussureggianti tipici di Hollywood, Bernstein scatena una jazz band aggressiva, nervosa, piena di ottoni stridenti e ritmi sincopati. Questa musica non commenta l'azione; è l'azione. È il suono della Chicago dei bassifondi, l'ansia della metropoli, il desiderio della "fissa". È la voce stessa della dipendenza di Frankie Machine, un tema musicale che ritorna ogni volta che il suo equilibrio vacilla, funzionando come un vero e proprio sintomo uditivo.
Frank Sinatra offre una delle sue performance più impegnate e meno controllate, un bagno di sudore e nervi scoperti che gli valse una meritata candidatura all'Oscar. Il suo Frankie Machine è un uomo diviso, la cui definizione è contenuta nel titolo. Il "braccio d'oro" è un doppio fardello: è il braccio del musicista, il batterista jazz di talento che potrebbe garantirgli una vita e una carriera (la redenzione attraverso l'arte), ed è il braccio del tossicodipendente, quello che riceve l'ago. Appena uscito da un istituto di recupero, Frankie è pulito, ha imparato a suonare la batteria e cerca disperatamente di ricominciare. Ma Preminger, con il suo sguardo clinico, ci mostra che l'ambiente è il vero antagonista. La topografia del film è quella di una trappola: il vicolo sudicio, il bar fumoso, la sala da gioco clandestina (l'altra sua dipendenza), e l'appartamento opprimente che condivide con la moglie.
Il vero centro oscuro del film, la sua figura più complessa e perversa, non è il pusher Louie (un viscido Darren McGavin), che è un semplice ingranaggio del sistema. L'autentica antagonista è la moglie, Zosch (Eleanor Parker). Costretta su una sedia a rotelle da un incidente (che lei attribuisce a Frankie), Zosch è il capolavoro di manipolazione psicologica del film. La Parker offre un'interpretazione coraggiosa e sgradevole, quella di una donna la cui paralisi scopriamo essere psicosomatica, un'arma che usa per incatenare Frankie a sé attraverso il senso di colpa. Zosch ha un terrore patologico che Frankie "guarisca" (dalla droga, ma soprattutto che diventi un musicista di successo), perché un Frankie indipendente è un Frankie che la lascerà. È l'incarnazione della co-dipendenza, un buco nero emotivo che sabota attivamente ogni tentativo del marito di restare pulito. La sua malattia fittizia è, in un certo senso, più tossica della dipendenza reale di Frankie.
Di fronte a questa prigione domestica, la speranza è rappresentata da Molly (Kim Novak), la ragazza del piano di sotto. Preminger sovverte le aspettative: la Novak, solitamente eterea, qui è radicata, pragmatica, una figura di "tough love". Non è un'infermiera sentimentale; è una donna che ha visto la vita e offre a Frankie un supporto pratico, quasi brusco, spingendolo verso la batteria e lontano dalla siringa. È lei che lo assiste nella sequenza che ha fatto la storia del cinema: la crisi d'astinenza. Per il pubblico del 1955, abituato al cinema edulcorato, questa scena fu uno shock. Preminger chiude Frankie in una stanza e rifiuta di distogliere lo sguardo. Filma l'agonia fisica di Sinatra (le contorsioni, il sudore, le allucinazioni) con una distanza quasi documentaristica. È un teatro della crudeltà, una discesa nell'inferno fisico che demistifica la dipendenza, mostrandola non come un vizio morale, ma come una malattia devastante che assale il corpo.
L'uomo dal braccio d'oro non è un film perfetto. Il suo linguaggio oggi può apparire a tratti teatrale, e il finale concede qualcosa alla necessità di una redenzione (seppur amara). Ma la sua importanza storica e culturale è monumentale. È un film che ha usato il prestigio di una star planetaria come Sinatra per costringere l'America a guardare in faccia i suoi demoni, nascosti nei vicoli delle sue città scintillanti. Ha aperto la porta a un cinema più onesto e difficile, dimostrando che nessun argomento era più intoccabile. Ha stabilito che il cinema poteva essere uno strumento di indagine sociale, un bisturi usato per incidere la superficie patinata della società e mostrare la malattia sottostante.
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