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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

The Master

2012

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Media: 4.50 / 5

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Un animale si aggira per l'America del dopoguerra. Non è una metafora. Freddie Quell, il reduce navale scolpito nel corpo febbricitante e contorto di Joaquin Phoenix, è una forza della natura, un fascio di istinti primari che la civiltà ha tentato di addomesticare con una divisa e una guerra, fallendo miseramente. Lo vediamo all'inizio, su una spiaggia del Pacifico, mentre modella una donna di sabbia dalle forme opulente per poi mimarci un goffo e disperato accoppiamento. È un Golem di libido e trauma, un Calibano emerso dalle profondità salmastre del Ventesimo Secolo, che distilla veleni letterali e metaforici per chiunque sia così incauto da bere alla sua fonte. Freddie è l'Id freudiano in zoccoli e pantaloni a zampa, un pezzo rotto di quella "Greatest Generation" che la storiografia ufficiale ha voluto dipingere come monolitica e vittoriosa, ma che Paul Thomas Anderson, con la precisione di un sismografo, registra nelle sue scosse di assestamento più violente e rimosse.

Poi, dal mare, emerge il suo opposto dialettico. Lancaster Dodd (un Philip Seymour Hoffman straripante, omerico, un Orson Welles che ha ingoiato L. Ron Hubbard) è l'intelletto, la struttura, la narrazione. È il Super-Io carismatico e tonante, il guru, il "Maestro" a capo di un movimento para-religioso-psicologico chiamato "la Causa". L'incontro tra i due, su uno yacht che fende le onde come una promessa di salvezza, non è un semplice snodo narrativo; è la collisione cosmica di due principi fondamentali. È la materia informe che incontra la mano del vasaio, il caos che brama l'ordine, l'animale che cerca un padrone. Anderson non filma una storia, ma l'elettroshock di un'anima nazionale, un duello psicologico che assume i contorni di un mito fondativo americano, oscuro e perverso.

La filmografia di Anderson è una costante esplorazione della famiglia disfunzionale, surrogata e disperatamente cercata. Da Boogie Nights a Il Petroliere, i suoi personaggi sono orfani in cerca di padri, e The Master è forse il culmine archetipico di questa ricerca. Il rapporto tra Dodd e Quell trascende la dinamica maestro-discepolo. È una relazione padre-figlio, con tutta la carica di amore, risentimento e violenza che comporta. È una seduta psicanalitica infinita, una dipendenza reciproca, un legame omoerotico teso e mai consumato che vibra sotto la superficie di ogni scena. Si cercano, si trovano, si studiano, si feriscono e si completano a vicenda. Dodd vede in Freddie l'uomo primordiale, la bestia che le sue teorie pretendono di poter domare, il test definitivo per la sua dottrina. Freddie, a sua volta, trova in Dodd l'unico essere umano capace di guardarlo dritto negli occhi senza fuggire, di dargli un nome, una struttura, un "processing" che possa, forse, sublimare il suo dolore incomprensibile.

La sequenza del primo "processing" è una delle vette assolute del cinema di questo secolo. Girata con inquadrature fisse, implacabili, è un Kammerspiel che mette a nudo due attori al culmine della loro potenza. La macchina da presa di Mihai Mălaimare Jr. (qui alla sua prima, sfolgorante collaborazione con Anderson) non giudica, non commenta: registra. Registra il sudore, il tic nervoso di Phoenix, la calma apparente e la fame intellettuale di Hoffman. È un duello verbale che si fa fisico, un esorcismo laico in cui le domande di Dodd non cercano risposte, ma la resa totale dell'altro. È un cinema che ricorda la ferocia psicologica di un Bergman che incontra la fisicità cruda di un Cassavetes, dove la parola diventa un bisturi che incide l'anima.

Ma Anderson, da cinefilo onnivoro e geniale qual è, non si accontenta del dramma da camera. Gira in 70mm, un formato epico, da kolossal, per raccontare una storia intima e claustrofobica. Questa scelta non è un vezzo estetico, ma una dichiarazione d'intenti. La grana spessa, la profondità di campo quasi tattile e la ricchezza cromatica conferiscono a questo dramma interiore una dimensione mitologica. Le onde dell'oceano, i deserti dell'Arizona, i salotti borghesi della East Coast diventano il palcoscenico monumentale per la lotta di un'anima. È come se John Ford avesse deciso di filmare una sceneggiatura di Harold Pinter, o se David Lean si fosse ossessionato con un personaggio uscito da un romanzo di John Steinbeck. Freddie Quell, con la sua andatura sciancata e il suo grugnito perenne, potrebbe essere un parente stretto di Lennie Small di Uomini e Topi, un'altra creatura troppo grande e istintiva per un mondo che chiede controllo e conformità.

Il contesto è, naturalmente, fondamentale. L'America degli anni '50 non è solo l'ambientazione, ma un personaggio invisibile. È un paese uscito vittorioso dalla guerra ma interiormente spezzato, in preda a un'ansia collettiva che cerca disperatamente nuovi profeti e nuove fedi. La Causa di Dodd, con il suo sincretismo di psicanalisi, reincarnazione e pensiero positivo, è la risposta perfetta a questo vuoto. Sebbene il parallelo con Scientology e la figura di L. Ron Hubbard sia evidente e intenzionale (lo stesso Anderson ammise di aver letto molto a riguardo), il film è troppo intelligente e universale per essere una semplice exposé. La Causa è un MacGuffin, un pretesto per esplorare il bisogno umano, eterno e disperato, di una narrazione. Di un "master". In un mondo privo di senso, Dodd offre una cosmologia, per quanto bislacca e improvvisata. Offre la promessa che il passato possa essere "ripulito", che non siamo solo "animali".

La partitura di Jonny Greenwood, collaboratore ormai simbiotico di Anderson, è il sistema nervoso del film. Dissonante, atonale, percussiva, eppure capace di aprirsi a momenti di inaspettata e struggente melodia, la musica non accompagna le immagini: le scava dall'interno. È il rumore bianco del trauma di Freddie, il ronzio della sua mente inquieta, che a tratti si placa nella seducente armonia delle canzoni cantate da Dodd, come l'ipnotica "Slow Boat to China". La musica, come il film stesso, lavora sulla tensione irrisolta tra caos e controllo.

Ciò che eleva The Master al rango di capolavoro immortale è la sua coraggiosa, quasi provocatoria ambiguità. Anderson non offre risposte. Dodd è un ciarlatano o un credente sincero? Probabilmente entrambi. Freddie viene salvato o ulteriormente danneggiato dalla Causa? La risposta non esiste. Il film si chiude con una circolarità quasi beffarda. L'ultima, profetica frase di Dodd a Freddie – "Se trovi un modo di vivere senza un padrone, qualunque padrone, faccelo sapere al resto di noi, perché saresti la prima persona nella storia del mondo" – è la chiave di volta epistemologica dell'intera opera. La ricerca di Freddie non è eccezionale, è universale. Siamo tutti, in una certa misura, alla ricerca di un sistema che dia un senso al nostro caos interiore, che sia una religione, un'ideologia politica, una squadra di calcio o un critico cinematografico.

Nel finale, vediamo Freddie ripetere le domande del processing a una nuova donna, sdraiato accanto a lei sulla sabbia, proprio come all'inizio. Forse ha trovato una parvenza di pace, o forse ha semplicemente imparato a essere il maestro di se stesso, interiorizzando il fantasma del suo mentore-tormentatore. O forse, più semplicemente, è condannato a ripetere il suo ciclo, come un pianeta errante in cerca di un'orbita. The Master non è un film che si "capisce", è un'esperienza che si assorbe. È un'opera tellurica, viscerale, un dipinto di Francis Bacon animato dalla grazia di Terrence Malick, un poema sinfonico sulla sete inestinguibile di fede e appartenenza nel cuore ferito dell'impero americano. Un film che non finisce ai titoli di coda, ma che continua a porre le sue domande scomode e necessarie molto tempo dopo che le luci in sala si sono riaccese.

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