The Prestige
2006
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Regista
«State osservando attentamente?». La domanda, sussurrata dalla voce fuori campo di Michael Caine, non è un semplice invito alla concentrazione. È una dichiarazione di intenti, la chiave di volta epistemologica di un’opera che si traveste da thriller d’epoca per svelare la sua vera natura di saggio meta-cinematografico sulla narrazione stessa. The Prestige di Christopher Nolan non è un film su due illusionisti; è un film-illusionista, un congegno narrativo diabolico che esibisce i propri ingranaggi mentre ci irretisce, smontando e rimontando la fede dello spettatore come un prestigiatore smonta e rimonta un orologio sul palco.
Nolan, qui al suo zenit come architetto-demiurgo, applica la logica ferrea dei suoi labirinti mentali (già esplorata in Memento, poi espansa in Inception) a un’ambientazione fin de siècle londinese, un’epoca crepuscolare dove la magia del palcoscenico si scontra con la magia ben più terrificante e concreta della scienza. Il film si presenta come una matrioska di diari, un racconto incastonato in un altro, una spirale di flashback che mima la struttura tripartita di un numero di prestigio: la Promessa (the Pledge), in cui l'illusionista mostra qualcosa di ordinario; la Svolta (the Turn), in cui compie un atto straordinario; e il Prestigio (the Prestige), l'effetto finale, il ritorno dell’oggetto scomparso che genera l’applauso. Nolan applica questa struttura non solo alla trama, ma all'esperienza stessa della visione. Noi, il pubblico, siamo il soggetto dell'esperimento. Ci viene mostrato tutto fin dall'inizio, ma, come recita la battuta finale, «non volete saperlo. Volete essere ingannati».
Al centro del meccanismo, due figure speculari e antitetiche, legate da un odio che è la forma più perversa dell'ammirazione: Robert Angier (Hugh Jackman), l'aristocratico dello spettacolo, il performer nato la cui arte risiede nella presentazione e nel carisma; e Alfred Borden (Christian Bale), il purista proletario, l'innovatore ossessivo per cui la magia non è un mezzo per ottenere l'adorazione del pubblico, ma un fine in sé, un segreto da custodire a costo della vita. La loro rivalità, innescata da una tragedia sul palco, trascende la competizione professionale per diventare una guerra ontologica. È una dinamica che affonda le sue radici nel grande romanzo ottocentesco, evocando la frattura dell'Io di Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson, dove la dualità non è solo psicologica ma diventa una condizione esistenziale. Angier e Borden sono le due facce della stessa medaglia artistica: l'Apollolineo e il Dionisiaco, l'ossessione per la forma contro la devozione al contenuto.
Jackman offre una performance magnifica, dipingendo un uomo la cui brama di successo lo consuma fino a renderlo un guscio vuoto, disposto a sacrificare la propria anima per un singolo, irripetibile momento di stupore. Ma è Bale a incarnare il cuore nero del film. Il suo Borden è un enigma ambulante, un uomo scontroso, inafferrabile, la cui dedizione all'arte sconfina nella patologia. Il suo segreto, il perno attorno al quale ruota l'intero film, non è un trucco, ma un patto di vita, un sacrificio che deforma l'identità fino a renderla inestricabile dalla finzione. È un’eco lontana dei personaggi di E.T.A. Hoffmann, figure scisse la cui ossessione per l'artificio (che siano automi o illusioni) li conduce alla follia o alla disintegrazione.
La sceneggiatura, firmata dai fratelli Nolan e basata sull'omonimo romanzo di Christopher Priest, è un capolavoro di depistaggio e rivelazione. Ogni dialogo, ogni inquadratura è carica di doppi sensi. Le allusioni ai gemelli, agli uccellini che scompaiono e riappaiono (uno vivo, uno morto nella gabbia), alla natura del sacrificio sono seminate con la perizia di un maestro orologiaio. Ma il colpo di genio del film è l'introduzione di Nikola Tesla, interpretato da un David Bowie la cui aliena, androgina ieraticità è perfetta per incarnare il vero mago dell'epoca, un uomo la cui "magia" era così avanti da sembrare indistinguibile dalla stregoneria. L'incursione nella fantascienza, con la macchina di Tesla che duplica la materia, non è un deus ex machina narrativo, ma una potentissima allegoria. Nolan mette in scena lo scontro eterno tra l'artigianato e la tecnologia, tra il sacrificio umano e la scorciatoia industriale.
In questo, il film diventa una riflessione quasi profetica sul nostro presente. La rivalità tra Angier e Borden è la spettacolare messa in scena del dilemma posto da Walter Benjamin ne "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica". Il "Trasporto Umano" di Borden, per quanto crudele nella sua premessa (una vita divisa in due), possiede un'"aura", un hic et nunc che nasce dal sacrificio fisico, dalla dedizione assoluta. È un'opera d'arte unica, irripetibile, fondata su un segreto organico. La versione di Angier, ottenuta con la macchina di Tesla, è l'esatto opposto: è la riproduzione in serie, la morte dell'originale, il trionfo della tecnica sulla sostanza. Ogni sera, Angier non esegue un trucco, ma un atto di suicidio e clonazione, generando una copia priva di storia, di anima, mentre l'originale annega in una vasca. È un'immagine di una potenza spaventosa, una metafora della perdita di autenticità nell'era della riproduzione di massa, dove il "prestigio" non è più il frutto di un ingegno umano, ma il risultato di un processo industriale.
Il contesto storico, la Londra vittoriana alla soglia del XX secolo, non è una semplice scenografia. È un personaggio. Un mondo in bilico tra superstizione e progresso, dove le lanterne a gas stanno per essere soppiantate dalla luce elettrica di Tesla e del suo rivale storico, Edison (menzionato nel film come una minaccia incombente). Questa tensione tra vecchio e nuovo, tra l'illusione romantica e la brutale efficienza della modernità, pervade ogni fotogramma. La fotografia di Wally Pfister gioca magistralmente con le ombre e le luci dorate, creando un'atmosfera che è al contempo sontuosa e claustrofobica, come i teatri in cui i protagonisti si esibiscono e le prigioni, reali e metaforiche, in cui si rinchiudono.
The Prestige è un film che esige, e ricompensa, visioni multiple. La prima volta si è vittime dell'inganno, trascinati dalla suspense e scioccati dalla rivelazione. La seconda, con la conoscenza del segreto, si diventa complici del prestigiatore. Si notano gli indizi, si apprezza la finezza della costruzione, si comprende che Nolan non ha mai barato. Ha semplicemente distratto la nostra attenzione, esattamente come un mago dirige lo sguardo del pubblico lontano dalla mano che compie il gesto segreto. Il film è una lezione di cinema e, al tempo stesso, una riflessione sulla natura del cinema stesso: un'arte basata su una menzogna consensuale, un patto tra artista e spettatore per sospendere l'incredulità e lasciarsi meravigliare. In questo senso, l'ossessione di Angier e Borden non è altro che la forma esasperata dell'ossessione di ogni grande regista: quella per l'illusione perfetta, per il momento in cui il pubblico dimentica la finzione e crede, anche solo per un istante, alla magia. Un'opera stratificata, gelida e appassionata, che si insinua sotto la pelle e continua a porre la sua domanda iniziale, anche a luci accese: state osservando attentamente? La risposta, probabilmente, è che non lo stavamo facendo. E questo è il suo prestigio più grande.
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