Rocky Horror Picture Show
1975
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Regista
Il più cult dei film cult: impossibile non innamorarsi di questo delizioso, irriverente, scostumato musical denso di canzoni epiche, di improbabili personaggi vestiti di lattice e reggicalze, e di altrettanto ineffabili personaggi venuti dallo spazio profondo. La sua aura di fenomeno, più che di semplice pellicola, è intrinsecamente legata non tanto a un trionfo immediato al botteghino, quanto alla sua risurrezione notturna nelle sale di seconda visione, trasformandosi in un rito collettivo, una performance partecipata in cui la distanza tra schermo e platea si annullava, in un'ebbrezza di libertà espressiva che prefigurava l'anarchia digitale dei nostri tempi. È qui che The Rocky Horror Picture Show trascende la definizione di film per divenire un'esperienza catartica, un rifugio per l'outsider e una celebrazione del "diverso" in ogni sua sfumatura.
Memorabile l’interpretazione di Tim Curry, un vampiro transgender, travestito e bisex, ubriaco di sesso, che irretisce i poveri Brad e Janet trasformandoli in pure macchine del piacere. Curry, con la sua magistrale fusione di carisma teatrale e perturbante seduzione, non si limita a recitare un ruolo; egli incarna Dr. Frank-N-Furter, il perno barocco e destabilizzante di un universo dove le convenzioni sono sferzate con voluttuosa eleganza. Il suo Frank-N-Furter è più di un semplice personaggio: è un'icona queer ante litteram, un satiro postmoderno che, con un tacco 12 e una risata sardonica, smantella il binarismo di genere e la rigidità morale, ergendosi a manifesto vivente della fluidità sessuale e dell'esuberanza esistenziale. La sua presenza scenica è talmente magnetica da assorbire ogni altra figura, trasformando gli altri eccentrici abitanti del castello di Frankenstein in satelliti della sua splendente, perversa gravità.
Un inno al piacere fisico, alla libertà sessuale, e alla gioia di vivere. Questa pulsione vitale non è solo celebrata, ma imposta, quasi come un battesimo profano, a due archetipi della borghesia americana, Brad e Janet, i quali, nel loro viaggio forzato dall'inquietante periferia alla sfrenata dissolutezza del castello, scoprono i reconditi meandri del proprio desiderio. È un'esplorazione che li libera dalle catene del perbenismo, una discesa nell'inconscio freudiano che rivela le pulsioni più primordiali e negate.
Interessante anche come documento di affrancamento dalla routine borghese e dai suoi perbenistici, angusti orizzonti morali. Il film si presenta come una satira pungente, un'acidissima critica all'ipocrisia di una società che condanna ciò che non comprende, ma che, sotto la patina di rispettabilità, nasconde un insaziabile appetito per il proibito. La distruzione dell'auto di Brad e Janet all'inizio, un simbolo della loro normalità e del loro "American Dream" di provincia, è il preludio al collasso totale delle loro identità preconcette, un'immagine vivida della liberazione che li attende. L'estetica di Rocky Horror è, in tal senso, profondamente legata al concetto di camp, teorizzato da Susan Sontag: una sensibilità che celebra l'eccesso, l'artificialità, l'ironia e lo "splendore della falsità", trasformando il cattivo gusto in virtù e il grandioso nel ridicolo. È un'operazione che si manifesta attraverso costumi esagerati, scenografie grottesche e un tono costantemente sopra le righe, ereditando dal glam rock degli anni '70 (pensiamo a David Bowie o Roxy Music) l'androgina ribellione e la teatralizzazione dell'identità.
Un film fantastico e inebriante in cui tutto sembra concesso e in cui l’espressività trova libero sfogo per librarsi e volare all’impazzata. La sua struttura narrativa è volutamente frammentata, un patchwork di numeri musicali e sketch che omaggiano con irriverenza il cinema di serie B, dai mostri della Universal ai musical horror dei drive-in. Il Narratore, che funge da sorta di guida accademica e impassibile, sottolinea la natura auto-referenziale e parodistica dell'opera, introducendo ogni segmento con una lucida e distaccata ironia che amplifica l'assurdità del contesto.
Tante le canzoni che hanno fatto la fortuna di questo musical: Time Warp, Sweet Transvestite, Touch-A-Touch-A-Touch-A-Touch Me, Superheroes… E tantissime le scene memorabili: l’apparizione del Dr. Frank-N-Furter con l’inquadratura che indugia sul suo tacco 12 che batte il tempo scendendo nell’ascensore per poi manifestarsi agli sbigottiti Brad and Janet trascinandoli nella frenesia del ritmo di Sweet Transvestite, un vero e proprio manifesto programmatico della sua identità trasgressiva e debosciata. La nascita di Rocky dalla macchina costruita per lui e le spudorate avances di Frank-N-Furter alla sua neonata creatura sottolineano un erotismo primordiale e senza freni, un inno alla creazione e alla sua immediata fruizione sessuale. Il triangolo sessuale tra Brad, Frank e Janet realizzato tramite sensualissime ombre cinesi è un momento di sublime raffinatezza visiva, un balletto erotico che evoca la nudità più intima attraverso la suggestione, proiettando i desideri più reconditi dei personaggi sulla parete del castello. È un gioco di luce e ombra che svela le pulsioni latenti dei protagonisti in un'immagine di potente allusione. E infine, la scena finale nella piscina, un bagno catartico sulle note struggenti di I’m Coming Home… I "supereroi" del titolo della canzone (Superheroes) non sono i salvatori convenzionali, ma piuttosto i sopravvissuti, i reduci da un'orgia di senso e di sensi, che emergono dal caos trasformati, forse non meno confusi, ma certamente irrevocabilmente cambiati. È una conclusione malinconica e al contempo liberatoria, che lascia un retrogusto agrodolce di un'esperienza che ha smascherato le ipocrisie e rivelato una più profonda, e forse inquietante, verità sull'identità e sul desiderio umano. Rocky Horror non è solo un film, è un'affermazione culturale, un grido di libertà che continua a risuonare, invitando ogni nuova generazione a ballare il Time Warp con abbandono e a scoprire la propria, unica, meravigliosa stranezza.
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