I Tenenbaum
2001
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Regista
Una famiglia eccentrica dove ogni personaggio porta a spasso la propria ironica follia. Questa eccentricità, tuttavia, non è mai fine a sé stessa, ma scava nelle profondità di un disagio esistenziale che Wes Anderson, con la sua inconfondibile lente, rende universale e stranamente riconoscibile.
Wes Anderson ci dona uno scrigno dove la vita scorre al contrario e dove ogni gesto circoscrive un preciso lessico familiare di cui vorremmo essere parte. Ma è un lessico intriso anche di non detti, di ferite non rimarginate e di un'incapacità cronica di comunicare apertamente, celata dietro strati di bizzarria e distacco. Il regista riesce in un'impresa rara: farci percepire la profonda malinconia che si annida sotto la superficie di ogni gag visiva e di ogni battuta arguta, creando un equilibrio precario tra la risata e il sospiro, tra la tenerezza e l'amara consapevolezza delle occasioni perdute.
Ogni membro della famiglia è un piccolo microcosmo con leggi e accadimenti a se stanti. Questi universi isolati, sebbene apparentemente autosufficienti, sono in realtà profondamente interconnessi, uniti da fili invisibili di affetto contorto e aspettative infrante.
La collisione di queste monadi vaganti costituirà l’ossatura principale dell’opera e la sua ineguagliabile seduzione verso lo spettatore smaliziato e sempre esigente. È nella frizione tra l'ordine maniacale delle inquadrature e il caos emotivo dei personaggi che si sprigiona la vera magia di Anderson, una dialettica che eleva il film oltre la semplice commedia familiare per avvicinarlo a un saggio visivo sulla fragilità della condizione umana e il peso schiacciante di un passato glorioso quanto ingombrante.
I coniugi Tenenbaum, lui avvocato, lei archeologa, hanno tre figli piccoli, ciascuno dotato di un proprio peculiare talento: Margot, adottata, è una valente drammaturga che a nove anni vince un premio di mille dollari; Chas a 12 anni è già un genio della finanza e Richie è un piccolo campione di tennis di fama mondiale. L'impronta di questi successi precoci, quasi un fardello, si insinua nelle loro vite adulte, definendoli e, al tempo stesso, soffocandoli.
La famiglia, con il passare del tempo, entra in declino: i due genitori si separano, mentre i figli sembrano disperdere il proprio talento nella maturità, schiacciati dal peso delle aspettative e dalla disillusione. Non si tratta solo di una perdita di abilità, ma di una vera e propria crisi d'identità, un’implosione dei loro archetipi infantili in figure adulte segnate dall'incertezza.
Chas è vedovo con due figli, ipocondriaco e terrorizzato da qualsiasi cosa possa mettere lontanamente in pericolo lui e i suoi figli, e la sua paranoia è espressa anche visivamente, con quelle tute rosse identiche per sé e per i bambini, un disperato tentativo di controllo e protezione da un mondo percepito come ostile. Margot si è sposata con un noioso accademico ed è divenuta apatica e disillusa dalla vita, non scrive più e fuma come una ciminiera rinchiusa per ore in bagno, la sua sigaretta perenne quasi un simbolo di un'anima spenta e di una creatività inaridita. Richie sembra vivere soltanto per il suo falco ammaestrato, Mordecai, e la sua passione per il tennis si è spenta, celando un segreto e tormentato amore per la sorellastra Margot, un affetto proibito che amplifica il senso di isolamento e incompiutezza che pervade la casa.
Quando Royal Tenenbaum, il patriarca, figura carismatica e manipolatrice ma al tempo stesso irresistibilmente affascinante, tenta un riavvicinamento con l’ex moglie per tornare a vivere con la propria famiglia scoppia un piccolo putiferio.
Royal dice di essere malato terminale di cancro ma il nuovo compagno della ex moglie smaschera la sua finzione e a Royal non rimane altro che tornarsene di nuovo via dalla casa. La menzogna, in questo contesto, non è solo un espediente narrativo, ma una chiave di lettura della personalità di Royal: un uomo capace di gesti estremi e plateali pur di riaffermare il proprio ruolo, una figura paterna assente ma perennemente presente nelle cicatrici emotive dei figli.
Ma nulla avviene per caso: il patetico tentativo di Royal servirà a riportare un certo equilibrio nei conflittuali rapporti tra i componenti della famiglia. Paradossalmente, è proprio la sua disonestà a innescare un processo di onestà emotiva tra i Tenenbaum, costringendoli a confrontarsi con le proprie paure e desideri repressi. È un risveglio doloroso ma necessario, un'ammissione reciproca di vulnerabilità che apre spiragli di riconciliazione.
Come in un romanzo russo ogni personaggio trova una precisa collocazione e ne viene fedelmente seguita l’evoluzione attraverso il filtro della narrazione. La risonanza con il canone letterario, in particolare con la galassia dei prodigi malinconici di J.D. Salinger – si pensi alla famiglia Glass, con i suoi precoci intelletti e le sue profonde nevrosi, o ai temi dell'alienazione e della ricerca di autenticità – è quasi palpabile. Anderson, infatti, non si limita a dipingere ritratti, ma scava nelle loro psicologie, nelle loro idiosincrasie, rivelando la complessa interazione tra genio, fallimento e il perenne bisogno di affetto, anche se espresso in modi tortuosi.
Wes Anderson è uno di quei registi il cui linguaggio cinematografico è immediatamente percepibile, come un marchio di fabbrica, rendendolo un vero e proprio autore nel senso più puro del termine. La sua estetica è un universo a sé stante: la geometria maniacale di ogni inquadratura, quasi una casa delle bambole in movimento, dove gli sfondi dipinti e gli oggetti d'arte sembrano avere una vita propria, contrapposta ai personaggi che spesso si muovono con una grazia goffa, quasi marionettistica. La palette di colori, con le sue tonalità calde e retrò, e la cura maniacale per il dettaglio della scenografia, in particolare l'iconica casa dei Tenenbaum, contribuiscono a creare un mondo visivamente distintivo e immersivo.
Il suo cinema è intessuto di levità e ironia, mai greve, mai insopportabilmente ampolloso. E come dimenticare la colonna sonora, un autentico tappeto sonoro che non si limita ad accompagnare, ma definisce l'anima di ogni sequenza, trasformando i brani di The Ramones, Nico o Elliott Smith in autentici commenti emotivi, in grado di amplificare il malinconico ottimismo o l'amara consapevolezza che permeano ogni scena.
Anche quando la vicenda assume i decisi contorni del dramma – come il tentato suicidio di Richie o le crisi di Chas – Anderson sembra gestire la storia con ilare disincanto, un modo di raccontare che gli appartiene e lo identifica. Non è un distacco freddo, ma una lente attraverso cui la tragedia si filtra nella commedia, e viceversa, lasciando allo spettatore la libertà di percepire l'una o l'altra, o entrambe, in un balletto di emozioni complesse. La performance di Gene Hackman nei panni di Royal, peraltro, è un monumento di istrionismo e vulnerabilità, un pilastro che ancora oggi spicca come una delle più grandi interpretazioni della sua carriera, capace di incarnare perfettamente l'ambivalenza di un personaggio tanto detestabile quanto irresistibilmente umano.
The Royal Tenenbaums è un film incantevole: come un sonetto trecentesco stilisticamente perfetto ed etereo nella sostanza, un'opera d'arte completa che continua a riverberare nella memoria, offrendo nuove sfumature a ogni visione e confermando Wes Anderson come uno dei più originali e affascinanti cantori della disfunzione familiare, della nostalgia e della bellezza intrinseca del non detto.
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