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La Regola del Gioco

1939

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La regola del gioco è un affresco satirico e disincantato dell'alta società francese alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Un’epoca sospesa in un precario equilibrio, in cui la leggerezza volgeva già verso una gravità imminente, e la frivolezza borghese si atteggiava a ultima, disperata danza sull'orlo del baratro.

Jean Renoir mette in scena un microcosmo di personaggi frivoli e superficiali, intrappolati in un gioco di relazioni amorose complicate e ipocrite. Un balletto di maschere e finzioni, dove ogni sentimento, ogni passione, persino ogni dolore, sembra essere soltanto una pedina in una partita perennemente in corso.

Il film, attraverso un sapiente intreccio di commedia e dramma, svela le contraddizioni e le debolezze di una classe sociale che si aggrappa a rituali e convenzioni desuete, ignorando il mondo che sta crollando intorno a loro. Quella che è in scena non è solo una cronaca di adulterio e gelosia, ma un'autopsia impietosa di un'aristocrazia e di una borghesia finanziaria incapaci di leggere i segni di una catastrofe incombente, rifugiate in un'illusoria bolla di privilegio e frivolezza.

La regola del gioco è un film che sorprende per la sua modernità, per la sua capacità di anticipare temi e stili che saranno poi sviluppati dal cinema moderno. È un'opera che, pur radicandosi saldamente nel suo tempo, si proietta con audacia verso il futuro, prefigurando le libertà espressive della Nouvelle Vague e la disinvoltura narrativa che avrebbero caratterizzato il cinema post-bellico.

La regia di Renoir, fluida e dinamica, utilizza piani sequenza e profondità di campo per creare un senso di realismo e di immersione nella storia, trasformando lo spettatore in un discreto osservatore, quasi un voyeur, di un dramma che si dipana senza soluzione di continuità. Questa scelta stilistica non è un mero virtuosismo tecnico; essa permette ai personaggi di muoversi liberamente nell'inquadratura, rivelando le loro interazioni complesse e la stratificazione sociale dell'ambiente, anticipando le teorie sull'ambiguità e la libertà interpretativa dello spettatore che sarebbero state celebrate da André Bazin. È un realismo che non si limita a riprodurre la superficie, ma scava nella psiche collettiva di un'epoca.

I dialoghi, brillanti e spesso crudeli, svelano l'ipocrisia e la superficialità dei personaggi plasmando un film che fa riflettere e che disturba, un'opera che mette a nudo le debolezze della natura umana e le contraddizioni della società. Ogni battuta è una pugnalata, un commento sferzante che demolisce le facciate di rispettabilità.

Un patinato melodramma in cui Eros e Thanatos danzano fino alla fine con disinvolta leggiadria. La caccia, che dovrebbe essere un rituale ludico e ordinato, si trasforma in una metafora brutale della barbarie insita nell'animo umano e della predazione sociale, dove la morte, sia quella degli animali che quella più tardi di un uomo, viene accolta con un cinismo quasi indifferente, come un mero incidente di percorso in un gioco più grande.

Renoir stupisce ancora una volta per il suo realismo senza prigionieri, in cui la nuda verità è fatta oggetto di pubblica esposizione senza alcun tipo di disincanto, ma con una lucidità quasi chirurgica.

In una grande villa di campagna, La Colinière, un gruppo di aristocratici e borghesi si riunisce per un weekend di caccia e feste. Un microcosmo claustrofobico, una sorta di nave dei folli che veleggia verso il naufragio.

Tra gli ospiti, ci sono il marchese Robert de la Cheyniest, un ricco collezionista di giocattoli meccanici (simbolo forse dell'artificialità e della manipolazione che permeano le sue relazioni), e sua moglie Christine, una donna affascinante e insoddisfatta.

Robert è innamorato di Geneviève, un'attrice di teatro, mentre Christine è corteggiata da André Jurieux, un aviatore eroe di guerra. Un uomo sincero e passionale, la cui onestà romantica è destinata a cozzare contro le convenzioni di un mondo che ha smarrito ogni autenticità.

Le relazioni amorose si intrecciano e si complicano, in un gioco di seduzioni, tradimenti e menzogne. La menzogna, infatti, non è un difetto morale, ma la regola stessa, il lubrificante sociale che permette a queste vite parallele di scorrere senza attriti apparenti.

Anche i servi della villa sono coinvolti nelle vicende amorose dei loro padroni, creando un parallelo tra le dinamiche dell'alta società e quelle del "mondo di sotto". Un parallelo che rivela come le stesse pulsioni, le stesse debolezze, pervadano ogni strato sociale, ma vengano gestite con codici e conseguenze molto diverse, talvolta più brutali, nel mondo "inferiore". Marceau, il bracconiere, e Schumacher, il guardiacaccia, con le loro passioni elementari, sono specchio e contrappunto delle sofisticate ipocrisie dei nobili.

Il weekend si conclude tragicamente, con un omicidio accidentale che sconvolge l'apparente ordine e le convenzioni sociali. La tragedia, però, viene presto insabbiata e la vita riprende come se nulla fosse accaduto, mostrando l'ipocrisia e la superficialità di un mondo che si rifiuta di affrontare la realtà, preferendo una comoda amnesia alla scomoda verità. L'atto finale non è una catarsi, ma una conferma della patologica indifferenza di quella società.

Inizialmente censurato e poi ripudiato dal pubblico e dalla critica, bruciato e mutilato, è stato riscoperto negli anni successivi, diventando un classico del cinema francese e mondiale. Il suo insuccesso iniziale fu probabilmente dovuto alla sua scomoda verità: il pubblico del 1939 non era pronto a specchiarsi in un'immagine così impietosa di sé stesso alla vigilia di una guerra che avrebbe spazzato via un'intera civiltà.

Il film è stato interpretato come una critica feroce all'ipocrisia e alla decadenza dell'alta società francese alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Un atto di accusa contro un'intera classe dirigente colpevole di cecità e auto-inganno.

Renoir, con uno sguardo lucido e disincantato, mette a nudo le contraddizioni di un mondo che si aggrappa a regole e convenzioni superficiali, ignorando i veri problemi e le tensioni sociali che lo attanagliano. La sua critica sociale sarà poi ripresa da un altro grande del 900, Luis Buñuel, con il quale condivide l'affondo sull'assurdità dei riti borghesi.

Ma mentre Renoir utilizza un approccio realista, osservando la realtà con attenzione e mettendone in luce le contraddizioni come farebbe un etnologo della società, Buñuel si serve del surrealismo per creare situazioni assurde e oniriche che svelano l'irrazionalità e l'ipocrisia della società. Entrambi i registi utilizzano ad ogni modo il registro ironico e lo strumento della satira per smascherare i vizi e le debolezze dei loro personaggi e della società che rappresentano, tracciando un solco per il cinema d'autore che avrebbe poi influenzato generazioni, dal Neorealismo italiano di Rossellini fino alla Nouvelle Vague che in Renoir riconoscerà uno dei suoi padri spirituali.

L’uso spregiudicato dei dialoghi come lame affilate all’interno di scene spesso estemporanee è usato per creare un crescente senso di sospensione, di spaesamento, di straniamento in chi guarda. Una dissonanza cognitiva che genera il vero, profondo disagio.

Un’opera, quella di Renoir, che oggi riscopriamo apprezzandone la straordinaria modernità e il meraviglioso incanto dialettico, un film che continua a parlarci della natura umana, delle sue fragilità e delle eterne, tragiche regole del gioco sociale.

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