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Il Servo

1963

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Losey, con la complicità del grande drammaturgo Harold Pinter, crea un perfetto congegno narrativo; non un mero ingranaggio drammatico, ma un orologio di precisione che scandisce la caduta, ticchettando inesorabile verso un’implosione psicologica. Il loro sodalizio artistico, forgiato anche da una comune sensibilità di outsider (Losey, esule britannico a causa del maccartismo, trovò in Pinter un alleato intellettuale e spirituale), si manifesta in una sinergia quasi alchemica. Il Pinteriano, con le sue pause cariche di non detto, i dialoghi apparentemente anodini che celano abissi di minaccia latente e le dinamiche di potere sottese a ogni interazione, trova nel linguaggio visivo di Losey la sua più acuta e disturbante trasposizione cinematografica.

Una di quelle storie che si trasformano sotto il naso dello spettatore, che da parte sua non può far altro che subirne il perverso fascino sprofondando al contempo in una sorta di trappola narrativa approntata dall’autore. Non è solo un racconto che evolve, ma una metamorfosi in atto, un’inesorabile discesa nella spirale della dipendenza e della sottomissione, dove le gerarchie sociali e psicologiche vengono sistematicamente sovvertite con una grazia malata. Il pubblico non è un semplice osservatore, bensì un complice involontario, intrappolato in una morbosità quasi seducente, incapace di distogliere lo sguardo dal progressivo sgretolamento delle identità, quasi fosse un esperimento sociologico condotto in tempo reale sull'animo umano più vulnerabile.

Un ricco e viziato ragazzotto, Tony (un notevole James Fox), si sposta a Londra e assume un domestico, Barrett (un magistrale Dirk Bogarde), per accudire i suoi opulenti possedimenti e la sua vita disordinata. Tony è l’emblema di una classe borghese-aristocratica britannica languida, svuotata di reale volontà, appesa ai retaggi di un passato glorioso ma incapace di affrontare le sfide del presente. Barrett, al contrario, incarna una forza oscura e pragmatica, una nuova tipologia di ambizione che si nutre delle debolezze altrui, un parassita sociale che si annida nel cuore della decadenza.

Tra i due s’instaura un rapporto strano, viziato dal carisma corrotto del domestico che gradualmente diverrà carnefice mentale del suo datore di lavoro disponendone a piacimento volontà e desideri. È qui che il film dispiega la sua vera natura di allegoria sociale e psicologica. Il legame tra Tony e Barrett si evolve da un’iniziale dinamica signore-servo a una disturbante inversione dei ruoli, un'erosione metodica di ogni confine personale e sociale. Barrett, con una calcolata serie di micro-aggressioni e manipolazioni silenziose – dall’introduzione della "sorella" Vera (Sarah Miles), una donna di dubbia moralità, alla sovversione degli orari e delle abitudini della casa – intacca progressivamente la fragile mascolinità e l’autonomia di Tony. La fidanzata di Tony, Susan (Wendy Craig), percepisce la minaccia e tenta invano di ricondurre il compagno a una realtà più sana, ma il suo tentativo è destinato a fallire di fronte al potere subdolo e onnipervasivo di Barrett, che sfrutta la latente ambiguità sessuale e la dipendenza emotiva di Tony. La casa stessa, dapprima simbolo di ordine e privilegio, si trasforma sotto la regia di Losey in una prigione claustrofobica, uno spazio mentale in cui le pareti si stringono e i riflessi negli specchi deformano la realtà, catturando i personaggi in un labirinto di desiderio represso e distruzione.

La macchina iconica di Losey aderisce perfettamente al geniale dettato drammaturgico di Pinter e riesce a restituirne il sapore sepolcrale unitamente alla vessazione psicologica. La regia di Losey non è mai invasiva, ma chirurgica, quasi clinica nella sua osservazione. Attraverso la magistrale fotografia in bianco e nero di Douglas Slocombe, il film si fa carico di una densità visiva straordinaria. L’uso ricorrente di specchi e superfici riflettenti non è un semplice vezzo stilistico, ma un espediente narrativo che frammenta le identità, moltiplica le prospettive e sottolinea la duplicità e la perdita di sé. I primi piani sui volti di Bogarde e Fox rivelano un abisso di emozioni non dette, di paure ancestrali e desideri inconfessabili. Bogarde, in particolare, offre una performance che ridefinì la sua carriera, allontanandolo dai ruoli da "matinée idol" per abbracciare personaggi complessi e moralmente ambigui che lo resero un'icona del cinema d'autore europeo. La sua interpretazione di Barrett è un tour de force di fredda determinazione e ambigua seduzione, capace di trasformare un sorriso in un ghigno minaccioso e un gesto di servizio in un atto di dominio.

Un’opera, quella di Losey, che svela gradualmente i suoi risvolti diabolici, viaggiando nelle menti dei protagonisti e tuttavia rimanendo in perfetto equilibrio sul mondo da noi conosciuto, esperito, toccato con mano, senza indulgere cioè in risvolti onirici o depotenziati del pragma. La sua forza risiede proprio in questa radicata aderenza alla realtà, per quanto distorta essa diventi. Il terrore non proviene da un mostro esterno o da un incubo surreale, ma dalla corrosione interna della psiche e delle convenzioni sociali. La follia, l'aberrazione, non sono presentate come fughe dalla realtà, bensì come estensioni logiche di una patologia latente nella società, di una fragilità esistenziale che si acuisce nel confronto con il potere e la manipolazione. In questo senso, Il Servo non è solo un dramma psicologico, ma un commento profondamente incisivo sulla mutazione della società britannica negli anni '60, un periodo di incertezze e di ribaltamenti di valori, in cui le vecchie gerarchie iniziavano a sgretolarsi per fare spazio a nuove e spesso più insidiose forme di controllo.

Un film perverso e geniale, che continua a riverberare la sua inquietante attualità, invitandoci a riflettere sulla fluidità delle identità e sulla natura insidiosa del potere nelle relazioni umane. Un capolavoro che, pur non concedendo facili risposte, lascia una traccia indelebile nell'anima dello spettatore, costringendolo a confrontarsi con il proprio lato oscuro e con le sottili dinamiche di sottomissione e dominio che permeano ogni strato del vivere civile.

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