Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

The Social Network

2010

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Media: 3.50 / 5

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Pochi film definiscono il proprio decennio con la precisione sismografica di "The Social Network". E ancora meno lo fanno mentre, in superficie, sembrano parlare d'altro. Annunciato come "il film su Facebook", l'opera di David Fincher e Aaron Sorkin si è rivelata essere qualcosa di infinitamente più complesso e duraturo: una tragedia shakespeariana in felpa e infradito, un "Quarto Potere" per l'era digitale, il mito di fondazione oscuro e febbrile di un'intera civiltà nascente. È un film su un'idea, certo, ma come tutte le grandi storie, è soprattutto un film su un uomo la cui tragedia è quella di non riuscire a decifrare il codice sorgente delle emozioni umane.

La simbiosi artistica tra Fincher e Sorkin è l'evento alchemico che trasfigura una cronaca di dispute legali e sessioni di programmazione in un thriller esistenziale. Sorkin, il librettista, orchestra una partitura verbale che è puro ritmo, una prosa-mitraglia che non cerca il realismo ma una sua vertiginosa sublimazione. I suoi dialoghi non sono come parlano le persone, ma come vorrebbero parlare nei loro momenti di massima lucidità e perfidia. Ogni conversazione è un duello, ogni battuta un affondo. Fincher, il compositore e direttore d'orchestra, prende questa materia incandescente e la congela in una teca di precisione glaciale. Il suo bisturi da chirurgo visivo, la sua palette cromatica desaturata, che tinge i campus di Harvard di un'eterna e malinconica penombra autunnale, creano la prigione perfetta per le ambizioni e le insicurezze che Sorkin mette a nudo. È il connubio tra il calore della parola e il gelo dell'immagine a generare la tensione insostenibile che pulsa per tutte le due ore di film.

Al centro di questo universo, Jesse Eisenberg offre un'interpretazione che non è semplice mimesi, ma esegesi. Il suo Mark Zuckerberg è un antieroe tragico di statura classica. Come il Charles Foster Kane di Welles, è un uomo che costruisce un impero per colmare un vuoto scavato da un rifiuto iniziale (il "Rosebud" qui non è una slitta, ma una blogger di nome Erica Albright). Zuckerberg non è un cattivo nel senso tradizionale; è un demiurgo digitale affetto da un'insormontabile hamartia: un'acuità intellettuale prodigiosa che si accompagna a una cecità emotiva quasi totale. È un architetto di connessioni che vive in uno stato di disconnessione perenne. La sua velocità di pensiero, tradotta da Eisenberg in una cadenza verbale supersonica e in uno sguardo che sembra costantemente processare dati invece che volti, lo isola dal mondo che cerca disperatamente di conquistare. Vuole entrare nei club esclusivi, ma finisce per crearne uno più grande di qualsiasi nazione, governandolo da una stanza solitaria. La sua nemesi non sono i gemelli Winklevoss né il suo ex amico Eduardo; è l'impossibilità di eseguire un "undo" sulle relazioni umane.

Intorno a lui, i personaggi secondari assumono contorni da archetipi moderni. Andrew Garfield è uno straziante Eduardo Saverin, l'unico vero amico, il cuore pulsante e ingenuo che viene reciso dal corpo della creatura in nome del "bene superiore" del business. La sua performance è un crescendo di incredulità e dolore, l'incarnazione di un'etica pre-digitale basata sulla lealtà e la stretta di mano, spazzata via dalla logica spietata della scalabilità. E poi c'è Sean Parker. Justin Timberlake, in una mossa di casting geniale, non interpreta semplicemente il fondatore di Napster; incarna l'idea stessa della seduzione californiana, il Mefistofele in t-shirt firmata che sussurra all'orecchio del nostro Faust di Cambridge la promessa non del potere, ma di qualcosa di infinitamente più desiderabile nel XXI secolo: la "coolness". La sua celebre battuta – "A million dollars isn't cool. You know what's cool? A billion dollars" – è il manifesto lapidario di una nuova etica capitalista, un Vangelo apocrifo della Silicon Valley.

Ma il genio del film non risiede solo nella scrittura o nelle interpretazioni. La regia di Fincher raggiunge vette di virtuosismo che trascendono la narrazione. Si pensi alla sequenza della regata di Henley, un momento di cinema puro. Mentre i privilegiati gemelli Winklevoss remano in una sincronia perfetta, simbolo di un mondo aristocratico e codificato, la loro fatica è musicata non da un inno trionfale, ma da una rielaborazione disturbante di "In the Hall of the Mountain King" di Grieg, firmata da Trent Reznor e Atticus Ross. La musica, un crescendo elettronico, ansiogeno e implacabile, trasforma una gara sportiva in una metafora della lotta di classe e dell'ineluttabilità del cambiamento. L'intera colonna sonora è, di fatto, un personaggio: un battito cardiaco digitale, il sistema nervoso del film che traduce in suono l'alienazione, l'ambizione e la paranoia dell'era che stava nascendo. Non è un accompagnamento, è il subconscio del film reso udibile.

"The Social Network" è un'opera profondamente meta-testuale. La sua stessa struttura narrativa, basata su due deposizioni legali che offrono versioni contrastanti e soggettive degli stessi eventi, rispecchia la natura stessa della piattaforma che descrive. Facebook, in fondo, è proprio questo: una raccolta di narrazioni personali, di verità curate, di profili che sono al contempo autoritratti e finzioni. Il film si costruisce come un feed di memorie, dove la verità oggettiva è irraggiungibile, persa nel flusso di prospettive in conflitto. Sorkin e Fincher non ci dicono chi ha ragione; ci mostrano che nel nuovo mondo digitale, la "storia" è una risorsa contendibile, un mosaico di status update la cui versione finale è decretata da chi ha più potere.

Visto a più di un decennio dalla sua uscita, il film acquisisce una patina profetica quasi spaventosa. Ha anticipato e diagnosticato le patologie che oggi sono endemiche: la confusione tra popolarità e valore, la monetizzazione delle relazioni, la solitudine endemica nell'iperconnessione, la nascita di nuove forme di potere non regolamentato che avrebbero riscritto le regole della democrazia stessa. Non è un film su un sito web. È un film sul momento preciso in cui l'umanità ha stretto un nuovo patto faustiano, cedendo frammenti della propria interiorità in cambio di un "like". È il racconto della nascita non di un'azienda, ma di una nuova ontologia.

La scena finale è la sineddoche perfetta di questa grandiosa tragedia moderna. Mark Zuckerberg, ora miliardario, solo nel buio di una sala riunioni, fissa il suo computer. Invia una richiesta di amicizia alla ragazza che lo aveva respinto all'inizio, colei che, involontariamente, aveva innescato tutto. E poi aspetta. Ricarica la pagina. Ancora. E ancora. In quell'attesa febbrile e patetica, in quel gesto ripetuto meccanicamente, c'è tutto il paradosso della nostra epoca. L'uomo che ha connesso un miliardo di persone non può fare altro che attendere un singolo, piccolo segno di connessione umana, fissando uno schermo che funge da specchio oscuro dei suoi desideri e del suo isolamento. Un re nel suo castello vuoto, illuminato solo dalla luce fredda della sua stessa, magnifica e terribile creazione.

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