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La Scala a Chiocciola

1945

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The Spiral Staircase è, per certi versi, l’antesignano dei moderni thriller con risvolti horror, una gemma scintillante incastonata nella corona del cinema noir e un precursore di archetipi narrativi che avrebbero plasmato il genere per decenni a venire. Non si limita a suggerire; esso scolpisce le fondamenta stesse di ciò che intendiamo per suspense psicologica e terrore domestico.

Girato nel 1945 in uno splendido bianco e nero, un chiaroscuro che eleva l'inquietudine a forma d'arte, il film contiene i prodromi di quelli che sarebbero stati i canoni di un intero genere negli anni a venire. Siamo testimoni dei primi piani assillanti degli occhi dell’assassino nell’atto di colpire la sua vittima, un espediente visivo che anticipa di decenni la soggettiva predatrice di Halloween e la minacciosa presenza del jaws hitchcockiano. L'attesa carica di tensione della vittima, un'agonia che si consuma non nel sangue ma nella pura anticipazione, trova qui una delle sue espressioni più raffinate, ponendo le basi per la grammatica filmica della vulnerabilità. Le atmosfere inquietanti, rese da un uso nervoso e ossessivo della cinepresa, non sono mero esercizio di stile, bensì un'immersione nella psiche turbolenta dei personaggi e dell'ambiente circostante. La telecamera di Robert Siodmak si muove come un fantasma, ora pedinante e incombente, ora intrappolata e soffocante, riflettendo la paranoia e la claustrofobia che permeano ogni inquadratura. Questo virtuosismo visivo, profondamente debitore all'Espressionismo tedesco – radice stilistica del regista –, trasforma le ombre in minacce tangibili e i corridoi in labirinti della mente. L'uso di elementi ambientali inusuali per alimentare la tensione emotiva – una scala a chiocciola che si erge come un albero scheletrico, un temporale che ulula come un presagio di sventura, un silenzio assordante – non è accessorio, ma essenziale, elevando la scenografia a co-protagonista e la casa stessa a entità vivente e malevola, secondo la più pura tradizione del gotico letterario.

La storia è ambientata nel New England, una cornice scelta con maestria per il suo retaggio di puritanesimo represso e di leggende sinistre, un luogo dove il vernacolo e il mistero si fondono. Un killer seriale uccide ragazze con un handicap fisico, una motivazione disturbante che sottende una perversione non solo fisica ma anche morale, sondando le fragilità umane e sociali. La prossima vittima designata è la governante sorda di un’avita magione, Helen, interpretata con straordinaria delicatezza e forza da Dorothy McGuire. La sua condizione, lungi dall'essere un mero espediente narrativo, diviene il perno attorno cui ruota l'intero impianto sensoriale del film. La sua incapacità di udire amplifica la nostra percezione, rendendo ogni scricchiolio, ogni sibilo del vento, ogni passo, una sinfonia di terrore che lei non può percepire, ma che lo spettatore avverte con una lucidità quasi insopportabile. Il proprietario della casa è lo stesso killer deputato ad uccidere la fanciulla, un ribaltamento agghiacciante della fiducia domestica e della sicurezza familiare, che anticipa il "mostro in casa" tanto caro al cinema psicologico. Questa rivelazione non è un semplice colpo di scena; è un commento sottile ma tagliente sulla natura del male, che può annidarsi sotto le vesti più insospettabili, nel cuore stesso della rispettabilità borghese.

Grande prova dietro la macchina da presa di Robert Siodmak, un regista molto prolifico che girò, nella sua lunga carriera, qualcosa come 60 film, gran parte di altissimo livello. Siodmak, un vero maestro della suspense, fuggito dalla Germania nazista per trovare la sua voce ad Hollywood, ha plasmato il genere noir con capolavori come The Killers e Cry of the City. La sua abilità nel costruire la tensione attraverso la mise-en-scène, l'uso sapiente del montaggio e la direzione degli attori – basti pensare all'indimenticabile prova di Ethel Barrymore nel ruolo della matriarca invalida, che incarna l'arcana saggezza e la rassegnata disperazione – è qui al suo apice. Siodmak non mostra semplicemente il terrore; lo fa respirare, lo fa pulsare attraverso l'architettura labirintica della dimora e la claustrofobia psicologica dei suoi abitanti. La sua influenza è palese in registi successivi che hanno esplorato il rapporto tra vittima e predatore, tra l'innocenza e la malevolenza celata, da Alfred Hitchcock – che avrebbe perfezionato l'arte della "suspense pura" – a Jacques Tourneur, con le sue atmosfere sottilmente terrificanti.

Un film che gioca con i sensi di chi guarda e di chi ascolta, ne mistifica la percezione della realtà fino a lasciare lo spettatore senza sicuri approdi, alla disperata ricerca di una certezza a cui aggrapparsi. La genialità di The Spiral Staircase risiede proprio in questa manipolazione sensoriale. La sordità della protagonista non è un difetto, ma una lente attraverso cui il film distorce e amplifica la nostra esperienza. Veniamo messi di fronte a un paradosso auditivo: noi udiamo i pericoli che la povera Helen non può sentire, creando un senso di ansia e impotenza condiviso. Ogni fruscio di stoffa, ogni tonfo lontano, assume un'eco terrificante nel silenzio di Helen, e dunque nella nostra consapevolezza acutizzata. È un cinema che sfida l'intelletto, che interroga la natura della percezione e della verità in un mondo dove la sicurezza è un'illusione e il male si nasconde in piena vista. The Spiral Staircase non è solo un thriller; è un'opera d'arte psicologica che ci costringe a confrontarci con le nostre paure più recondite, quelle che dimorano nel buio, proprio come le ombre che danzano sui muri di quella inquietante scala a chiocciola.

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