The Substance
2024
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Regista
La cellula è una bomba a orologeria biologica. Coralie Fargeat lo sa, e con "The Substance" non si limita a disinnescarla: la fa detonare in un tripudio grandguignolesco di carne, ambizione e disprezzo di sé, orchestrando la più feroce e acuta satira sull'ossessione per la giovinezza dai tempi in cui Meryl Streep e Goldie Hawn si contendevano una pozione magica in "La morte ti fa bella". Ma se il film di Zemeckis era una commedia nera con innesti gotici, quello di Fargeat è un trattato di body horror esistenziale scritto con il bisturi e girato con l'estetica laccata di un Giallo di Dario Argento sotto anfetamine. È un'opera che affonda le sue radici tanto in David Cronenberg quanto in Oscar Wilde, un "Dorian Gray" per l'era dell'Ozempic e dei filtri di Instagram, dove il ritratto che marcisce in soffitta non è su tela, ma è il nostro stesso corpo originale, relegato all'obsolescenza programmata.
Il genio dell'operazione risiede, in primis, in un atto di casting che trascende la mera recitazione per diventare meta-commento culturale. Scegliere Demi Moore per il ruolo di Elisabeth Sparkle, star del fitness televisivo messa alla porta al compimento dei cinquant'anni, è una mossa di una perfidia e di una brillantezza assolute. Moore non è solo un'attrice che interpreta un personaggio; è la sineddoche carnale di un intero sistema-Hollywood che per decenni ha esaltato, mercificato e infine punito la sua immagine. La sua carriera è stata un perpetuo negoziato con lo sguardo pubblico, un campo di battaglia su cui si sono combattute guerre sulla parità salariale, sulla libertà sessuale ("Striptease") e sulla ridefinizione dei canoni fisici ("G.I. Jane"). Vederla qui, con una vulnerabilità che è allo stesso tempo fragile e rabbiosa, affrontare il fantasma della propria "data di scadenza" conferisce al film un peso specifico che nessun'altra interprete avrebbe potuto garantire. La sua performance è un atto di coraggio quasi sacrificale, un'esposizione del meccanismo stesso che l'ha resa icona.
Quando Elisabeth inietta "The Substance" e dà alla luce "Sue" – una versione più giovane, perfetta, idealizzata di sé stessa interpretata da una Margaret Qualley elettrizzante e ferinamente vuota – Fargeat non mette in scena un semplice sdoppiamento, ma una vera e propria guerra civile interiore. L'analogia più immediata è con "Il Dottor Jekyll e Mr. Hyde" di Stevenson, ma Fargeat ribalta il presupposto vittoriano. Qui, non è il lato oscuro e primordiale a essere liberato, ma l'opposto: una versione sterilizzata, ottimizzata per il consumo sociale, un simulacro di perfezione che esiste solo in funzione dello sguardo altrui. Sue non è il mostro; il mostro, agli occhi della società e infine di sé stessa, diventa la vecchia e decadente Elisabeth. È un'inversione diabolica che parla direttamente al nostro presente, dove la persona "reale" è spesso vista come la brutta copia, l'avatar analogico e difettoso della nostra identità digitale curata alla perfezione.
La relazione simbiotica e parassitaria tra le due identità – sette giorni per una, sette per l'altra, con la "vecchia" che deve rientrare nel suo corpo per rigenerare la "nuova" – è il motore di un'escalation di orrore psicologico e fisico che non lascia scampo. Fargeat, come già dimostrato nel suo esordio "Revenge", è una maestra nel tradurre la violenza sistemica e psicologica in immagini di una brutalità quasi pittorica. Se "Revenge" usava il deserto come tela per il suo rape-and-revenge iper-stilizzato, qui il paesaggio è il corpo femminile stesso, sezionato, violato, contorto e infine fatto a pezzi. Le sequenze di trasformazione e decomposizione sono puro Cronenberg, in particolare quello de "La Mosca", dove il corpo diventa prigione e traditore, un involucro organico che si ribella alla volontà della coscienza. Ma mentre Brundle-Mosca era una tragedia della hybris scientifica, la disintegrazione di Elisabeth/Sue è una tragedia dell'autofagia narcisistica, alimentata da un patriarcato vacuo e predatorio incarnato dal personaggio lascivo e patetico di Dennis Quaid, un altro colpo di casting perfetto che rappresenta il catalizzatore tossico di questo intero sistema.
Visivamente, "The Substance" è un baccanale di lattice e sangue, un'orgia di colori primari saturi che evocano tanto il citato Giallo quanto le estetiche chirurgiche e asettiche di certo cinema di fantascienza anni '70. La regista gioca con i generi con la disinvoltura di un deejay, mescolando la satira più caustica con lo splatter più estremo, il dramma psicologico con la farsa grottesca. Il climax del film, ambientato durante una diretta televisiva di Capodanno, è una delle sequenze più sfrontate, disgustose e catartiche viste nel cinema horror recente, un'esplosione di Grand Guignol che spinge il pedale dell'eccesso fino a frantumarlo. È una scelta radicale che potrebbe alienare una parte del pubblico, ma è concettualmente ineccepibile: la repressione violenta del proprio sé non può che sfociare in una liberazione altrettanto violenta, una cacofonia di carne e fluidi che è l'unica risposta possibile a una cultura che esige un silenzio composto e una superficie levigata.
Al di là dell'orrore, il film è una profonda meditazione sulla natura dell'identità e dell'odio di sé. Non è un caso che Elisabeth e Sue siano, in fondo, la stessa persona. La vera antagonista non è la giovane che soppianta la vecchia, come in un "Eva contro Eva" biotecnologico. Il vero conflitto è quello di una donna che ha interiorizzato a tal punto il disprezzo della società per il proprio invecchiamento da essere disposta a commettere un lento e doloroso suicidio per interposta persona. La battaglia tra le due è la manifestazione fisica di una psiche scissa, una lotta tra l'accettazione e il rifiuto, tra la memoria incarnata e l'aspirazione disincarnata. In questo, "The Substance" si avvicina più a "Possession" di Żuławski che a un horror convenzionale: il corpo si contorce e si lacera perché la mente è già in pezzi, vittima di un'insostenibile pressione esterna.
"The Substance" non è un film sottile, né vuole esserlo. È un urlo primordiale mascherato da thriller satirico, un pugno nello stomaco avvolto in una confezione patinata. Coralie Fargeat ha creato un'allegoria potente e disturbante per il nostro tempo, un'opera che, come le migliori del genere, usa l'eccesso e il grottesco per rivelare una verità scomoda sulla nostra cultura. È il requiem per il corpo naturale nell'era della sua infinita e artificiale replicabilità, un promemoria sanguinolento e pulsante che, nel tentativo di creare una versione migliore di noi stessi, rischiamo di annientare completamente ciò che siamo. E nel farlo, ci lascia con una domanda tanto semplice quanto terrificante: se potessi cancellare la parte di te che odi, cosa ti resterebbe? Probabilmente, solo la sostanza di cui è fatto un incubo.
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