L'Inquilino del Terzo Piano
1976
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Regista
Un incubo rattrappito in quattro anguste pareti che divengono veicolo di allucinazioni lisergiche e sottile confine che separa dall’orrore sussurrato. Non un orrore esplosivo o manifestamente sovrannaturale, ma piuttosto una corrosione lenta, insidiosa, che trapana le fondamenta della realtà percepita, lasciando l’individuo alla mercé della propria psiche disincarnata.
Polanski continua a battere la pista del “terrore domestico” di Rosemary’s Baby e Repulsion con questo splendido Le Locataire, che si erge a culmine di quella che la critica ha giustamente battezzato la sua “Trilogia dell’Appartamento”. Opera concettuale in cui la casa, lungi dall'essere mero fondale, diviene trappola mentale che ghermisce la sua preda separandola fatalmente dal contesto sociale. In un cinema che si nutre di spazi chiusi, pochi come Polanski hanno saputo elevare le mura domestiche a personaggi a pieno titolo, trasformandole in gabbie dorate o, come qui, in cripte psicologiche. La sua stessa biografia, segnata dalla perdita e dal nomadismo, si specchia in questa ricorrente indagine sull'instabilità delle fondamenta esistenziali.
Trelkowski è un impiegatucolo di origini polacche, un uomo insignificante e mite, quasi un’ombra, che prende casa a Parigi per motivi di lavoro. La sua estraneità, il suo essere un "altro" in una società che lo osserva e lo giudica, lo rende la vittima ideale per un’aggressione che non avviene con violenza fisica, ma con una raffinata crudeltà psicologica. L’uomo scopre che la precedente inquilina dell’appartamento, una certa Simone Choule, si era suicidata gettandosi dalla finestra. Inizierà così una liturgia di scoperte e ritrovamenti che riaffiorano nella casa come turpi vestigia di un passato che gradualmente lo afferra e lo trascina in un vortice di follia. Gli oggetti, i rumori, le accuse sottili dei vicini si trasformano in strumenti di una tortura lenta, una sorta di "gaslighting" collettivo che mina la sua già fragile identità. Trelkowski, passivo e accondiscendente, incarna il perfetto archetipo kafkiano dell'uomo schiacciato da un sistema assurdo e incomprensibile, dove ogni richiesta, ogni sguardo obliquo dei condomini, diviene una sentenza inappellabile.
Tutto l’impianto narrativo e visivo diviene funzionale alla paranoia del protagonista mentre il senso opprimente di claustrofobia assume proporzioni intollerabili. Polanski, che qui è anche il protagonista, si immerge fisicamente nel ruolo, rendendo la sua performance un tour de force di inquietudine trattenuta. La telecamera, spesso posizionata in angoli inusuali, con lenti grandangolari che distorcono gli spazi e prospettive oblique, riflette la sua disintegrazione mentale. Ogni inquadratura è una finestra sulla sua mente in frantumi. Le scale a chiocciola del palazzo non sono solo un elemento architettonico, ma una discesa a spirale nell'abisso della pazzia, un percorso obbligato verso l'ineluttabile. Anche il sound design gioca un ruolo cruciale: i rumori dei vicini, gli schiamazzi notturni, il gocciolio dell’acqua, il respiro della propria ansia, tutto si amplifica, contribuendo a creare un’atmosfera di costante minaccia.
Memorabile la scena in cui Trelkowski va a far visita alla ragazza che aveva tentato il suicidio trovandola ricoperta dalle bende, un'immagine quasi egizia, di un corpo mummificato prima del tempo. All’arrivo di un’amica comune, l’inferma emette un lungo grido di terrore che Polanski esalta con un primo piano in zoomata, un carrello a precedere sulla bocca spalancata e stretta tra le bende. È un urlo primordiale, un presagio, quasi un monito che attraversa il tempo, una voce del passato che anticipa il suo destino. Quel grido non è solo la reazione alla sua visione, ma la proiezione del terrore che presto ghermirà Trelkowski stesso, un’eco del suo futuro sprofondare nella stessa identità.
Se in Rosemary’s Baby il terrore era di origine demoniaca, tangibile nella sua malvagità satanica, qui scava in un terreno molto più ordinario, fatto di routine, di grigiore quotidiano, di bassezze morali e di una burocrazia della crudeltà che non ha bisogno di entità soprannaturali per devastare. Ed è tremendamente più inquietante, perché più vicina alla realtà delle nostre paure più profonde: la perdita di sé, l'alienazione sociale, la percezione di essere intrappolati in un incubo da cui non c'è risveglio. L'assurdità del vivere, l'insensatezza dei rapporti umani e la spietatezza del giudizio sociale si rivelano come i veri demoni, agghiaccianti nella loro banalità. Trelkowski, in un atto di identificazione malata, inizia a percepire di trasformarsi nella sfortunata inquilina precedente, un’ossessiva metamorfosi che culmina in un finale agghiacciante, ciclico, senza via di scampo.
Polanski non si limita a giocare con la psiche del suo personaggio, ma invita lo spettatore a dubitare della propria percezione della realtà, a porsi domande sulla natura dell'identità e sulla sua fluidità. L'appartamento stesso diventa una macchina per l'annientamento dell'individuo, un palcoscenico per un dramma esistenziale in cui il protagonista è condannato a recitare un ruolo non suo, una fatalità che lo risucchia in un vortice di follia autoimposta. Questo è il vero "mutamento estetico" nella poetica polanskiana: il passaggio da un horror che, per quanto psicologico, aveva ancora un'ancora di salvezza nella "realtà" (anche se macabra), a un terrore puramente soggettivo, dove la distinzione tra allucinazione e realtà si annulla, lasciando un senso di vertigine e smarrimento. Un’opera di capitale importanza per addentrarsi nella poetica del regista polacco e carpirne gli embrioni di un nichilismo sottile, di un determinismo che non lascia scampo, e di una maestria nel plasmare il non detto, l'inafferrabile terrore che abita le pieghe più recondite della mente umana.
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