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The Tree of Life

2011

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Media: 4.29 / 5

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Affrontare The Tree of Life è come tentare di descrivere un sogno a qualcun altro la mattina dopo. Le immagini sono vivide, le emozioni potentissime, ma la logica narrativa si dissolve come nebbia al sole, lasciando dietro di sé un'impronta spirituale più che un racconto coerente. Terrence Malick, il grande anacoreta del cinema americano, non gira un film; orchestra una sinfonia visiva, un poema rapsodico che tenta l'impossibile: mappare l'intero spettro dell'esistenza, dal macrocosmo della creazione universale al microcosmo di una famiglia disfunzionale nel Texas degli anni Cinquanta. È un'opera che divide, che frustra, che esalta. Un film che non chiede di essere capito, ma sentito. O lo si respinge come un colossale, pretenzioso atto di hybris artistica, o ci si arrende alla sua maestosità, lasciandosi sommergere come da un'onda anomala di pura estetica.

La narrazione, se di narrazione si può parlare, si ancora alla memoria di Jack O'Brien (interpretato da un tormentato Sean Penn nella sua versione adulta), un architetto intrappolato in una torre di vetro e acciaio che è la metafora perfetta della sua anima alienata. Una telefonata lo informa della morte del fratello, evento che funge da madeleine proustiana, scatenando un torrenziale flusso di coscienza che ci riporta alla sua infanzia a Waco. Qui, il film abbandona la struttura convenzionale per diventare un'immersione sensoriale nell'età dell'innocenza e della sua traumatica perdita. Malick non ricostruisce il passato; lo evoca attraverso frammenti, sussurri, epifanie. La macchina da presa di Emmanuel Lubezki, che qui inaugura la sua fase più eterea e fluttuante, non osserva i personaggi: danza con loro. È un occhio bambino, perennemente ad altezza fianchi, che guarda in alto verso i genitori, figure titaniche e incomprensibili. È un fantasma che scivola tra le stanze, che cattura la polvere danzante in un raggio di sole, il fruscio delle foglie, lo scricchiolio di un'altalena.

Al centro di questo Eden imperfetto si trova la dicotomia fondamentale, esplicitata dalla voce fuori campo della madre all'inizio del film: la via della Natura e la via della Grazia. Sono i due principi che governano il mondo e che si incarnano nelle figure genitoriali. Il padre, Mr. O'Brien (un Brad Pitt monumentale, in una delle sue interpretazioni più complesse e coraggiose), è la Natura. È l'autorità, l'ordine, la disciplina ferrea, la frustrazione dell'artista mancato che riversa sulla prole le sue ambizioni fallite. È il Dio dell'Antico Testamento: severo, esigente, a tratti crudele, ma mosso da un amore goffo e disperato che non sa come esprimere. Le sue lezioni di vita sono lezioni di durezza, di sopravvivenza in un mondo competitivo. La madre, Mrs. O'Brien (una Jessica Chastain quasi angelica, trasfigurata dalla luce), è la Grazia. È l'amore incondizionato, il perdono, la bellezza, la connessione spirituale con il mondo. È lo spirito del Nuovo Testamento: accogliente, compassionevole, eterea. Jack cresce in mezzo a questa guerra teologica combattuta tra le mura di casa, amando e odiando il padre, cercando rifugio nella madre, e scoprendo dentro di sé la stessa, identica lotta tra l'istinto di prevaricazione e il desiderio di trascendenza.

Ma Malick non si accontenta di questo dramma familiare, per quanto universale. Con un'audacia che rasenta la follia, interrompe il flusso dei ricordi per proiettarci indietro nel tempo, fino al Big Bang. Per quasi venti minuti, assistiamo a una cosmogonia visiva che è la risposta spirituale e organica allo "Stargate" di 2001: Odissea nello spazio. Se Kubrick era freddo, geometrico, interessato all'evoluzione dell'intelligenza, Malick è caldo, biologico, affascinato dal mistero della vita stessa. Galassie che si formano, vulcani che eruttano, meduse che pulsano negli abissi primordiali, il tutto accompagnato dalle note del Requiem di Berlioz. È cinema puro, astratto, un tentativo di filmare l'infilmabile. E poi, il momento che ha fatto sussultare il pubblico di Cannes e ha generato infiniti dibattiti: la sequenza dei dinosauri. Un plesiosauro ferito sulla riva di un fiume, un altro predatore che gli si avvicina, gli poggia una zampa sul capo e, invece di finirlo, prosegue. È un gesto inspiegabile, un lampo di compassione o di esitazione in un mondo dominato dalla legge del più forte. È la domanda centrale del film posta su una scala di milioni di anni: da dove viene la Grazia? È un'anomalia o è inscritta nel tessuto stesso della creazione? Questa scena, apparentemente bizzarra, è la chiave di volta filosofica dell'opera, una meditazione sulla teodicea che riecheggia le domande del Libro di Giobbe.

Il processo creativo di Malick è leggendario quanto i suoi film. È noto per girare centinaia di ore di pellicola, lavorando senza una sceneggiatura rigida ma con temi, poesie, brani musicali. Agli attori vengono dati spunti filosofici più che dialoghi. Questa improvvisazione controllata, questa ricerca dell'autenticità del momento, si traduce in una performance cinematografica che assomiglia più al free jazz che a una partitura classica. L'attore non recita una parte, ma abita uno spazio emotivo, e Lubezki è lì per catturare le scintille di verità che ne scaturiscono. Il risultato è un film che respira, che vive di attimi rubati, di sguardi fugaci, di gesti involontari. È un cinema che condivide più con la poesia di Walt Whitman, con la sua capacità di vedere l'universo in un filo d'erba, o con il trascendentalismo di Emerson, che con la tradizione narrativa hollywoodiana.

La sezione finale, con un Jack adulto che vaga in un paesaggio desertico e poi su una spiaggia metafisica dove incontra le versioni giovani di sé stesso, dei suoi fratelli e dei suoi genitori, è la parte più criptica e potenzialmente indigesta. È un aldilà simbolico, un luogo di riconciliazione e perdono. Le anime si ritrovano, non per spiegare, ma per accettare. Il padre e il figlio si abbracciano, la famiglia si riunisce sotto una luce purificatrice. Malick non offre risposte facili sul dolore o sulla perdita; suggerisce che l'unica possibile consolazione risiede nell'accettazione del mistero e nell'atto d'amore che ci lega gli uni agli altri, attraverso il tempo e lo spazio. La porta che si apre alla fine non conduce a una rivelazione, ma a una semplice, serena continuazione dell'esistenza.

The Tree of Life non è un film da guardare passivamente. È un'opera-mondo, un saggio filosofico, una preghiera visiva. È un atto di fede cinematografica di una sincerità disarmante e di un'ambizione smisurata. Come i grandi romanzi modernisti, da Joyce a Woolf, frammenta la percezione per restituire la complessità del reale e l'inafferrabilità della coscienza. Ci chiede di abbandonare le nostre aspettative narrative e di lasciarci trasportare dal suo flusso maestoso, a volte irritante, ma sempre profondamente umano. È la ricerca di Dio in un cortile del Texas, la scoperta dell'eternità nel ricordo di un'estate lontana. Un'esperienza cinematografica totale, che si imprime nella retina e nell'anima, destinata a crescere dentro lo spettatore molto tempo dopo che le luci in sala si sono riaccese.

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