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Appuntamento a Belleville

2003

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Un grandioso film di animazione di Sylvain Chomet con disegni semplicemente sublimi e uno storyboard surreale, ironico e affascinante. L'opera si erge come un baluardo contro l'omologazione digitale che ha pervaso l'animazione contemporanea, celebrando una manualità artigianale che traduce l'emozione in ogni pennellata, in ogni tratto espressivo. È un cinema disegnato a mano con la meticolosità di un miniaturista e la visionarietà di un pittore surrealista, capace di evocare atmosfere che richiamano tanto l'espressionismo europeo quanto la vivacità del cartone animato classico, ma con un'anima profondamente originale e malinconica.

La madre di un giovane ciclista insegue suo figlio attraversando l’oceano in pedalò fino alla metropoli di Belleville dove lo dovrà strappare dalle grinfie di un losco biscazziere avvinazzato che l’ha rapito per alimentare un giro di scommesse clandestine. Questa odissea acquatica, surreale eppure intrisa di una palpabile urgenza emotiva, trasforma la tenace Nonna Madame Souza in un'eroina archetipica, un'indomita Penelope moderna alla ricerca del suo Ulisse in un mondo che ha smarrito ogni bussola morale. La sua traversata oceanica su un mezzo così improbabile non è solo un espediente narrativo, ma una potente metafora della determinazione incrollabile dell'amore materno di fronte all'assurdità del mondo.

La donna sarà aiutata da tre vecchine, vecchie glorie del teatro vaudeville, che vivono nutrendosi di rane e ricordi. Le "Triplettes", creature bislacche e affascinanti, sono un inno a un'epoca d'oro dello spettacolo, un relitto vivente di un'arte povera ma autentica, fatta di improvvisazione, di musica e di un profondo senso del tempo perduto. La loro singolare dieta a base di rane, catturate con un'abilità quasi primordiale, le colloca ai margini di una società che le ha dimenticate, ma le dota di una resilienza e di un'arguzia che superano di gran lunga la volgarità e la grettezza della metropoli moderna. Sono le muse di un'umanità caparbia che rifiuta di arrendersi al logorio del progresso.

Fa da cornice alla storia una città grottesca, fagocitata da giganteschi cartelli pubblicitari, da veicoli brulicanti e improbabili, da cittadini bolsi come quadri di Botero (persino la Statua della Libertà è in versione boteriana). Belleville non è solo uno sfondo, ma un personaggio a sé stante: una caricatura spietata della modernità globalizzata, un melting pot americano distorto, intossicato dal consumismo più sfrenato e da una frenesia urbana che rasenta l'alienazione. La sua architettura distorta e i suoi abitanti deformi, volutamente sproporzionati e gonfi nella loro opulenza o nella loro miseria, sono un commento amaro sulla perdita di armonia e grazia nel mondo contemporaneo, una critica non dissimile da quella che George Grosz o Otto Dix rivolgevano alla loro Germania post-bellica, pur con un umorismo più lieve e malinconico. È un inferno dantesco dipinto con i colori acidi della pubblicità e del progresso cieco.

Alcune scene veramente deliziose come la gara dei ciclisti rapiti su biciclette che azionano piccoli ciclisti meccanici sui quali scommettono denaro i malavitosi accorsi per godersi lo spettacolo. Questo macabro palcoscenico di sfruttamento è una delle vette satiriche del film, una metafora agghiacciante della disumanizzazione sportiva e della mercificazione dell'essere umano. I corpi dei ciclisti, ridotti a meri motori per i loro alter ego in miniatura, diventano l'emblema di una società che divora e spettacolarizza ogni forma di talento e passione, trasformando l'agonismo in un mero circo per scommettitori annoiati. È una scena che inchioda lo spettatore con la sua crudeltà e la sua brillantezza metaforica, un lampo di genio surreale che illumina le ombre dell'avidità umana.

Un bilioso turbinare di situazioni tragicomiche, di personaggi bislacchi e improbabili, di condizioni abiette e di resurrezioni epiche. Il film di Chomet è un funambolico equilibrio tra riso amaro e commozione sincera, una commedia umana intrisa di una malinconia tutta francese, che affonda le radici nella tradizione del vaudeville e del cinema muto, dove il dramma si stempera nell'assurdo e l'assurdo rivela la verità più profonda. Ogni figura, dal villain corpulento al cameriere che serve rane come fosse champagne, è un capolavoro di caratterizzazione, un archetipo distorto che contribuisce a tessere un arazzo narrativo densissimo di sfumature, dove la resilienza dell'individuo si scontra con la grossolanità del mondo esterno.

Il mondo di Chomet è un diorama allampanato e malinconico dove si muovono personaggi che parlano attraverso suoni gutturali, un dissestato palcoscenico dove il capocomico mette in scena piccoli drammi inzuppati di umorismo surreale à la Tati. L'assenza quasi totale di dialoghi espliciti non è una limitazione, ma una liberazione. Chomet, come il suo maestro Jacques Tati, comprende che il cinema è un'arte visiva e sonora. Ogni cigolio, ogni respiro affannoso, ogni nota strimpellata dalla bici-musicale delle Triplettes diventa parola, narrazione, emozione pura. L'orchestra di suoni e rumori, curata con una maniacale precisione, crea un paesaggio acustico che sostituisce la parola, evocando atmosfere e pensieri con una forza espressiva sorprendente. L'omaggio a Tati è evidente non solo nell'umorismo di situazione e nella critica sottile alla modernità, ma anche nella costruzione di gag visive che si affidano alla gestualità e alla mimica, trasformando ogni scena in una coreografia buffa e al contempo intrisa di una profonda poesia. Come in Play Time o Mon Oncle, la civiltà moderna è osservata con occhio critico ma anche con una certa tenerezza per le sue incongruenze, trasformando il caos in una bizzarra sinfonia.

Su tutto aleggia la poetica delle piccole cose: oggetti, animali ed essere umani dimenticati dal tempo, emarginati dalla frenesia quotidiana, che assurgono a protagonisti di una storia incantevole. È un inno alla dignità degli umili, un requiem per un mondo che non c'è più, ma che rivive attraverso la lente deformante eppure amorevole di un autore che crede nella forza salvifica della gentilezza, della lealtà e della stramberia. Il film è una commovente elegia per ciò che viene scartato, per ciò che non rientra nei canoni del successo e dell'efficienza, trasformando il marginale in eroico, il kitsch in arte, la desolazione in bellezza. "Appuntamento a Belleville" non è solo un film, ma un'esperienza sensoriale e intellettuale che resta impressa nella memoria, una sinfonia visiva che celebra la resilienza dello spirito umano di fronte all'assurdità e alla crudeltà del mondo.

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