La sorgente del fiume
2004
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Regista
Chiedere a Theo Angelopoulos di "raccontare una storia" è come chiedere a Mark Rothko di dipingere un ritratto. È un errore di categoria, un fraintendimento fondamentale del mezzo. Il cinema di Angelopoulos non si occupa di trama; si occupa di tempo. È un cinema ontologico, un saggio filosofico sull'atto di guardare, un'immersione in una temporalità così dilatata e solenne da mirare a scardinare le nostre abitudini di spettatori fast-food. La sorgente del fiume, prima parte della sua (tragicamente) incompiuta trilogia sul XX secolo, è forse l'esempio più puro e rigoroso di questa estetica. Non è un dramma storico; è un'elegia liquida, un tableau vivant in perenne, lentissimo movimento, un saggio metafisico sul concetto di confine, esilio e memoria. Angelopoulos non filma gli eventi; filma la cicatrice che gli eventi lasciano sul paesaggio e sull'anima. È un cinema che respira, e il suo respiro è la nebbia che sale dall'acqua.
Il film è una sinfonia del grigio, del verde marcio, del marrone fangoso. La tavolozza di Angelopoulos (filtrata dal genio del direttore della fotografia Andreas Sinanos) è una negazione del colore vibrante, un'immersione nel fango primordiale da cui la Storia emerge come un Golem stanco. Il "prato che piange" del titolo originale non è uno sfondo; è il protagonista. Siamo nel 1919, rifugiati greci fuggiti da Odessa (l'inizio del grande Esodo) si insediano in questo non-luogo vicino a Salonicco. È un paesaggio anfibio, un villaggio letteralmente sommerso, dove le case sono scheletri che emergono dalla nebbia, e l'acqua ha reclamato la terra. La scelta è palesemente anti-realista, quasi brechtiana. Questo non è un villaggio; è un archetipo. È il limbo dell'esule, un'isola dei morti di Böcklin inzuppata di pioggia balcanica. I personaggi non camminano sulla terra; guadano la Storia. L'acqua, onnipresente, non è un simbolo di rinascita o purificazione, ma di stasi, di memoria che non può essere sepolta perché continua a galleggiare in superficie, indifferente alle tragedie umane che vi si specchiano.
Al centro di questa stasi, c'è un nucleo di melodramma che Angelopoulos, da maestro, si rifiuta di far esplodere. È la storia di Eleni (Alexandra Aidini, un volto che è una maschera tragica, quasi bressoniana nella sua immobile espressività), un'orfana che incarna l'anima stessa della Grecia esiliata. È costretta a sposare il patriarca vedovo e abusivo, Spyros (Vasilis Kolovos), ma è legata da un amore assoluto, quasi incestuoso (sono cresciuti come fratelli), al figlio di lui, Il Ragazzo (Nikos Poursanidis). Nelle mani di chiunque altro, da Douglas Sirk a un regista contemporaneo, sarebbe un mélo strappalacrime, un'esplosione di primi piani e musica incalzante. Nelle mani di Angelopoulos, diventa un rituale funebre, una processione di figure dolenti. La sua leggendaria tecnica del piano sequenza—coreografie complesse che durano minuti interi, dove la macchina da presa si muove con la lentezza di un ghiacciaio—raggiunge qui una purezza glaciale. La cinepresa non segue i personaggi; esegue una panoramica lenta, li osserva entrare e uscire dall'inquadratura, li abbandona per contemplare il paesaggio, poi torna. È la Storia che ha il controllo, non gli individui. La loro passione non è psicologica; è mitica. Sono archetipi (l'Orfana, l'Amante, il Padre) intrappolati in un destino che è già stato scritto dalla geografia e dalla politica.
Il vero antagonista del film è il XX secolo. Angelopoulos ci trascina dal 1919 al 1949, dall'instabilità del primo dopoguerra alla dittatura di Metaxas, dall'occupazione nazista fino alla Guerra Civile Greca—la ferita che non si è mai rimarginata. Ma lo fa senza una sola didascalia, senza una sola "scena di battaglia". La Storia irrompe nell'inquadratura come un attore non invitato, o più spesso, accade appena fuori campo, lasciandoci solo le sue conseguenze emotive. È la sequenza indimenticabile del funerale di Spyros: un corteo di barche nere che scivolano sull'acqua grigia, una processione che è già mito. È la sequenza dell'invasione, dove la banda del villaggio (il cui suono di fisarmonica, il cuore pulsante della colonna sonora sublime ed essenziale di Eleni Karaindrou, è l'unica voce dei personaggi) viene arrestata e caricata su un camion; i loro corpi scompaiono, ma la loro musica continua a fluttuare nell'aria. Angelopoulos non ha bisogno del realismo della violenza; gli basta mostrare la musica che svanisce per raccontare la fine della cultura. Il culmine è la Guerra Civile, ridotta a un paesaggio innevato, a un filo spinato, e all'apparizione spettrale dei partigiani comunisti che emergono dalla nebbia, non come eroi o demoni, ma come l'ennesima iterazione del destino.
La sorgente del fiume è un'esperienza che rasenta il liturgico. È un cinema che richiede pazienza, che ci costringe a disimparare il linguaggio cinematografico basato sul montaggio rapido e sulla gratificazione istantanea. Ci chiede di sentire la durata del dolore, l'umidità della perdita. È il cinema come atto morale. Eleni, alla fine, è sola, una Penelope moderna le cui prove non sono state mitiche, ma storiche, una testimone immobile che ha visto tutto e non ha più lacrime. Il suo amante è fuggito, presumibilmente in America, che non è una salvezza, ma solo l'ennesimo esilio. Il film si chiude (o si apre) con l'immagine di un fiume che funge da confine, un tema che Angelopoulos avrebbe esplorato per tutta la vita (da Il passo sospeso della cicogna). Non c'è catarsi, non c'è risoluzione. C'è solo la consapevolezza che la Storia è un fiume di fango che ci trascina, e l'unica cosa che possiamo fare è testimoniare. Angelopoulos è il nostro testimone supremo, e questo è il suo verbale desolato e magnifico.
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