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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

The Wolf of Wall Street

2013

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Un'opera che trascende la biografia (quella dell'autoproclamato lupo Jordan Belfort, interpretato da un Leonardo DiCaprio in stato di grazia demoniaca) per diventare un affresco dionisiaco, un Satyricon della Finanza girato come uno spot pubblicitario sotto anfetamine. La macchina da presa di Scorsese, guidata dalla mano invisibile e ritmicamente perfetta di Thelma Schoonmaker al montaggio, non si ferma mai. Non c'è spazio per la riflessione morale, non c'è tempo per la condanna. Il film adotta il punto di vista del suo protagonista, ma non per glorificarlo – come hanno banalmente sostenuto i suoi detrattori più miopi – bensì per farci annegare nella sua stessa, vuota euforia. È un iper-realismo farsesco. Siamo costretti a correre insieme a Belfort, a ridere delle sue battute oscene, a partecipare al lancio del nano, a desiderare i suoi soldi, solo per scoprire, alla fine della corsa, che non c'è nulla. Non c'è tragedia, non c'è catarsi, c'è solo un vuoto pneumatico riempito di banconote, cocaina e corpi.

Il genio del film risiede nella sua struttura apparentemente caotica, che in realtà è un capolavoro di controllo ritmico. È un'opera di vaudeville postmoderno. Ogni sequenza è un "numero" a sé stante, un'escalation di depravazione che sfida le leggi della fisica e del buon gusto. La famigerata sequenza dei Quaalude "lemmon 714", con la paralisi cerebrale strisciante di DiCaprio, non è solo commedia fisica; è Beckett riscritto da Rabelais, un corpo che collassa sotto il peso della sua stessa, insaziabile fame. Scorsese e lo sceneggiatore Terence Winter capiscono che la finanza di Stratton Oakmont non è economia; è spettacolo. È un circo, e Belfort è il suo Ringmaster, un P.T. Barnum che ha sostituito le meraviglie con i "pink sheets" (le azioni-spazzatura). I suoi soci, in particolare il delirante Donnie Azoff (un Jonah Hill che incarna perfettamente l'innocenza perversa del desiderio), non sono colleghi; sono la sua claque, i suoi apostoli sboccati.

La performance di DiCaprio è cruciale. Non è il lupo del titolo, ma un ibrido tra un televangelista e Caligola. I suoi discorsi motivazionali alla platea di Stratton Oakmont non sono semplici arringhe; sono sermoni. Il film coglie un punto fondamentale del capitalismo deregolamentato degli anni '90 (e, per estensione, del nostro presente): il denaro ha smesso di essere un mezzo ed è diventato una teleologia, un dio esigente. Il breve, ma fondamentale, cameo di Mark Hanna (Matthew McConaughey) all'inizio del film funge da battesimo: il mantra del "battere la carne" e del "fuck the clients" non è un consiglio professionale, è un'iniziazione misterica. È il rito di passaggio che trasforma un essere umano in un "lupo".

Ma come funziona, esattamente, la truffa? Non è una questione di algoritmi complessi. È una questione di pura, distillata persuasione linguistica. E qui, il film tocca vertici di analisi meta-testuale quasi filosofici. Jordan Belfort è, in un certo senso, un Wittgensteiniano deviato. Se il Wittgenstein delle Ricerche Filosofiche ha decostruito l'idea che il linguaggio serva primariamente a "descrivere" il mondo, introducendo il concetto di "giochi linguistici" (Sprachspiel) – dove le parole traggono il loro significato dall'uso pratico e dal contesto sociale in cui vengono impiegate – Belfort ne è l'applicazione più predatoria.

A lui non interessa la verità dell'azione che sta vendendo. Il prodotto è irrilevante. Ciò che vende è il gioco linguistico della ricchezza. "Vendimi questa penna", la sua famosa sfida, non è un test di vendita; è un test di creazione della realtà. Il venditore mediocre descrive l'oggetto ("Questa penna ha un bell'inchiostro"). Il "lupo" crea un bisogno manipolando il contesto ("Scrivimi il tuo nome su quel tovagliolo". "Non ho una penna". "Esatto. Domanda e offerta, amico mio."). Belfort non usa il linguaggio per mappare una realtà (la tesi del Tractatus); usa il linguaggio per costruire una realtà alternativa, un "mondo" (per usare ancora Wittgenstein) in cui il cliente è già in ritardo, sta già perdendo un'opportunità, e l'unica salvezza è l'acquisto immediato. Gli "script" che impone ai suoi broker non sono dialoghi; sono le regole di un gioco truccato in cui l'unica mossa vincente del cliente è dire "sì". Belfort non vende azioni; vende la performance della certezza. In un mondo finanziario sempre più astratto e dematerializzato, l'unica cosa rimasta "reale" è la fiducia che la voce all'altro capo del telefono riesce a proiettare.

Il film è stato prodotto e distribuito nel 2013, e questo non è un caso. È emerso dalle ceneri fumanti della crisi finanziaria del 2008. The Wolf of Wall Street è la risposta rabbiosa e sarcastica a un decennio in cui il mondo ha visto i "capitani d'industria" mandare in rovina l'economia globale per poi andarsene con bonus milionari. Il film di Scorsese è profondamente morale proprio perché rifiuta la morale convenzionale. Se Wall Street di Oliver Stone (1987) si concludeva con la punizione di Gordon Gekko, un atto di fede ormai quasi commovente nel sistema giudiziario, Scorsese ci mostra la verità grottesca: Belfort riceve una pena ridicola in un carcere-resort e rinasce, intatto, come speaker motivazionale.

È qui che il film sferra il suo colpo più micidiale. L'ultima inquadratura non è su Belfort. Dopo averlo visto sul palco di un seminario in Nuova Zelanda, mentre pone la sua solita domanda ("Vendimi questa penna") a un pubblico adorante, la macchina da presa di Scorsese si sposta. Piroetta lentamente e ci mostra i volti degli spettatori. Siamo noi. Un mare di facce normali, speranzose, affamate, che pendono dalle labbra del lupo, disperate di imparare il trucco, di scoprire il segreto per diventare ricchi.

Scorsese ci sta dicendo che il problema non è solo Jordan Belfort. Il problema è il sistema che lo venera, che lo produce, e che gli permette di prosperare anche dopo la caduta. Il lupo non è un'anomalia; è il prodotto perfetto del nostro desiderio collettivo. Non c'è redenzione perché, in fondo, nessuno la vuole davvero. Vogliamo solo sapere come vendere la penna. E in questo specchio impietoso, The Wolf of Wall Street cessa di essere una commedia nera e diventa il documento più agghiacciante e accurato del nostro tempo.

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