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The Wrestler

2008

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La sconfitta è uno dei temi che Darren Aronofsky ama più trattare nelle sue opere, declinandola con una tenacia quasi ossessiva. Sconfitta intesa non soltanto come un esito avverso o un fallimento pragmatico, ma come una progressiva deriva da una società ostile e per certi versi perversa nella sua refrattarietà all'imperfezione, alla debolezza, alla marginalità. È un fil rouge che attraversa la sua filmografia, da Pi - Il teorema del delirio, con il suo matematico ossessionato che si perde nella ricerca di un numero universale, a Requiem for a Dream, dove la caduta nell'abisso della dipendenza è irreversibile, fino a Il cigno nero, che esplora il baratro dell'auto-distruzione in nome della perfezione artistica. In ogni film, Aronofsky mette in scena un percorso intimista all’interno di personaggi talmente concentrati nel perseguire i loro obiettivi da allontanarsi fatalmente dal resto dell’umanità, trovando nel sublime la propria dannazione.

Li abbiamo amati fino in fondo gli sconfitti di Darren, figure titaniche nella loro fragilità, e sicuramente amiamo anche Randy "The Ram" Robinson, il vecchio lottatore cardiopatico protagonista di "The Wrestler". Un’icona consumata, ai margini della società che fatica a tenere il passo della quotidianità, trasformato quasi in un relitto di un'epoca passata. Il film, presentato nel 2008, giunge in un momento di grande riflessione sul mito americano e sulle sue figure logorate, inserendosi in un filone che potremmo quasi definire di "western metropolitano", dove l'eroe stanco combatte la sua ultima, disperata battaglia non nel deserto, ma nei sobborghi squallidi e nelle arene da quattro soldi.

Dopo essere stato protagonista di un incontro durissimo in cui i medici gli hanno riscontrato un grave danno al cuore, a Randy The Ram non rimane altro che abbandonare il Wrestling e cercare di restare a galla. Il suo tentativo di reintegrazione nel mondo "normale" è uno dei passaggi più dolorosi e significativi del film. Tenta di lavorare in un supermercato, una scena che è un capolavoro di umiliazione e contrasto: i neon asettici del reparto gastronomia contro i riflettori scintillanti del ring, la servile cortesia richiesta contro il ruggito della folla, la micro-tirannia del suo superiore contro l'autoproclamata regalità del Ram. All’ennesima umiliazione, molla tutto con inaudita rabbia, un moto di dignità ferita che ribadisce la sua incapacità, o forse il suo rifiuto ontologico, di piegarsi alle regole di un mondo che non riconosce la sua grandezza passata.

Nel suo vagare, conosce Cassidy, una spogliarellista che condivide con lui il senso di sconfitta e di mercificazione del proprio corpo, e se ne innamora. La loro è una storia d'amore che non può fiorire completamente, un legame tra due anime danneggiate che si riconoscono ma non riescono a salvarsi reciprocamente. Lei è una "performer" come lui, ma la sua arena è il nudo, la sua folla è un pugno di uomini solitari. C'è una risonanza profonda tra i loro mondi: entrambi vendono illusioni, entrambi barattano una parte di sé per la sopravvivenza, entrambi desiderano, disperatamente, un'autentica connessione. Ma il suo sogno, la sua maledizione e la sua unica vera identità, è tornare a combattere, nonostante tutto e tutti.

Questa immersione nel profondo di un'anima ferita è resa possibile da una grande interpretazione di un sorprendente Mickey Rourke, un attore che, con questa pellicola, ritorna clamorosamente alla ribalta. La sua performance non è solo recitazione; è un atto di catarsi, una mimesi quasi mistica tra l'attore e il personaggio. Il volto scavato di Rourke, segnato dalle battaglie reali e cinematografiche, la sua fisicità un tempo iconica e ora provata, diventano la tela su cui Aronofsky dipinge il ritratto di Randy. La sua stessa carriera, fatta di glorie giovanili, cadute rovinose e tentativi di risalita nel mondo della boxe e poi del cinema di serie B, si fonde con la narrazione del film, creando un meta-racconto di redenzione e caduta che amplifica la risonanza emotiva della pellicola. È quasi impossibile separare Randy da Rourke, e questa simbiosi è il cuore pulsante di "The Wrestler", trasformando un semplice dramma sportivo in un'indagine esistenziale sulla resilienza, l'identità e la ricerca di un senso in un mondo che sembra aver dimenticato i suoi eroi.

Un vortice di disillusione, amarezza ed emarginazione ruota intorno a questa storia, non solo quella personale di Randy, ma quella più ampia di una certa idea di America, di un'industria dell'intrattenimento che consuma e scarta, e di un'esistenza che si fa sempre più precaria per chi non si adatta. Ma anche una delicata storia d’amore, sussurrata come una flebile canzone in sottofondo, firmata dalla voce calda e rotta di Bruce Springsteen, la cui "The Wrestler" non è solo la colonna sonora, ma l'epitaffio musicale, un lamento blues per l'uomo comune, l'ultimo cowboy del ring.

La violenza dissimulata del ring, con le sue coreografie prestabilite e il suo "kayfabe" (la realtà fittizia del wrestling), fa da contrappunto alla violenza tutt’altro che fittizia della vita reale. Nel quadrato, Randy è "The Ram", invincibile, icona. Fuori, è Robin Ramzinski, un uomo qualunque, vulnerabile e indifeso di fronte alle intemperie del quotidiano. È qui, nella brutalità silenziosa delle relazioni spezzate, dei sogni infranti, delle bollette da pagare e delle umiliazioni sul lavoro, che il vecchio lottatore combatte il suo incontro più duro, un match senza regole né arbitri.

Molto toccante e indimenticabile è la scena finale, un climax di struggente bellezza e ambiguità. Il vecchio leone del ring si avvia al suo ultimo incontro, non una celebrazione trionfale, ma un inevitabile passo verso morte certa o, per lo meno, verso la distruzione fisica totale. Le sue ultime parole al microfono, un commiato straziante rivolto all’unica persona a cui importava di lui – sua figlia Stephanie, con la quale aveva tentato una riconciliazione fallimentare – risuonano come un credo: “L’unico posto dove mi ferisco realmente è la vita qua fuori”. È una frase che racchiude tutta la filosofia del personaggio e del film: nel ring, nonostante il dolore fisico lancinante, egli è nel suo elemento, è "The Ram", protetto dall'illusione di controllo e dal ruggito della folla. Fuori, nella vita reale, è solo e impotente. La sua caduta finale, il suo salto dalla terza corda, non è solo una mossa di wrestling, ma un atto di liberazione, un supremo gesto di volontà. È il suo modo di scegliere la propria fine, di affermare la propria identità fino all'ultimo respiro, tramutando la sconfitta in un tragico, glorioso trionfo della volontà. In quel fotogramma finale, Randy ascende, non verso il cielo, ma verso il mito che ha costruito, l'unico luogo dove può, finalmente, essere se stesso.

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